Buoansera a tutti,
speriamo che le forze politiche, pure a Spoleto, non
si dimentichino di ricordare ciò che successe tra il Friuli-Venezia- Giulia,
Istria, Dalmazia, Sloveniae Jugoslavia.
E’ vero che gli sloveni obbligarono gli istriani e i
giulio-dalmati, di origine italiana, a
prendere la via dell’esilio, ma le colpe sono da dividere equamente con gli italiani, purtroppo “fascisti”.
Non dimentichiamoci che l’Italia aveva occupato
quelle terre solo perché avevamo vinto la
prima guerra mondiale; quelle
popolazioni si sentivano già serbi , croati, slovene, jugoslavi, ma erano
sottomessi al governo austriaco.
Pubblico il lavoro della Commissione storico-culturale italo-slovena che n el 1993
i Ministri degli esteri dell’Italia e della Slovenia istituirono unacon
lo scopo di fare il punto sui risultati della ricerca storica realizzata nei due
Paesi sul tema dei reciproci rapporti
E’
doveroso ringraziare oltre alla Commissione, Giovanni Simoncelli dell’A.N.P.I. di Perugia che c'ha
inviato il testo e la sezione di Gorizia, che ne ha riproposto la diffusione e il Presidente Gian Paolo
Loreti che vuole dire la verità su quel periodo storico che ha vissuto.
Alessandro Ciamarra
I RAPPORTI ITALO-SLOVENI TRA IL 1880 ED IL 1956 RELAZIONE DELLA COMMISSIONE ITALO SLOVENA
.N el 1993 i Ministri
degli esteri dell’Italia e della Slovenia istituirono una Commissione storico- culturale italo-slovena con lo scopo di fare il punto sui risultati
della ricerca storica realizzata nei
due Paesi sul tema dei reciproci
rapporti.
La Commissione era formata da parte italiana
da Giorgio
Conetti, docente di diritto internazionale e preside della facoltà di giurisprudenza di Como che la presiedeva, e dagli storici Angelo Ara (Università di Pavia),
Marina Cattaruzza (Università di Berna), Fulvio Salimbeni (Università di Udine),
Raoul
Pupo
(Università
di
Trieste),
Maria Paola
Pagnini, ordinario di geografia dell’Università di Trieste
e dal sen. Lucio Toth, dell’Associazione Nazionale Venezia
Giulia e Dalmazia. La parte slovena, presieduta dalla dott.ssa Milica
Kacin Wohinz era composta dagli storici France Dolinar, Branko
Marusˇicˇ, Boris Mlakar,
Nevenka Troha, Andrej
Vovko e Aleksander Vuga. Inizialmente fecero parte della
Commissione anche il costituzionalista Sergio Bartole, lo scrittore Fulvio Tomizza,
lo storico Elio Apih e Boris Gombacˇ che, per vari motivi, non poterono proseguire nell’incarico.
Dopo
7 anni di lavoro e ripetuti incontri
la relazione conclusiva della Commissione fu approvata
all’unanimità dai suoi
14 componenti il 25 luglio
2000
e consegnata ai rispettivi Ministeri degli esteri,
ma inspiegabilmente per 8 mesi non fu resa pubblica.
Benché la pubblicazione fosse
stata sollecitata da più parti, tra le quali l’ANPI, e da un voto unanime della Camera dei Deputati, la relazione fu resa pubblica
nel testo integrale
soltanto il 4 aprile 2001 dal quotidiano “Il Piccolo” e – lo stesso giorno – anche dal Ministero degli esteri.
Tuttavia questo documento, salvo rare eccezioni, non fu ripreso
ed adeguatamente diffuso benché costituisca una base certa
per
una
riflessione
sulle
tormentate
vicende
del
confine orientale e dei popoli che in quest’area convivono.
L’A.N.P.I. lo ripropone
a
chi
vorrà
approfondire
la
materia
ed
in
particolare a quanti
svolgono la delicata
ed essenziale funzione
di sollecitarne la conoscenza alle giovani generazioni nelle scuole, ritenendo con ciò di recare un contributo per lo sviluppo
di un dibattito finalmente
sottratto a visioni
unilaterali e di parte.
Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
Comitato Provinciale
di Gorizia
Avvertenza:
il documento approvato dalla Commissione è privo di titolazioni
ad
eccezione di quelle che si riferiscono ai quattro periodi
presi in esame.
I titoli che appaiono nel testo sono quindi dovuti a noi al solo scopo di facilitarne la lettura.
I RAPPORTI ITALO-SLOVENI
Periodo 1880 -1918
Il rapporto italo-sloveno nella regione adriati- ca
ha la sua origine nella fase di crisi successiva al
crollo dell’impero romano, quando
da una parte sul tronco
della romanità si sviluppa l’italianità e dall’altra si verifica l’insediamento della popola- zione slovena. Di questo secolare
rapporto di vici-
nanza e di convivenza s’intende qui trattare il pe-
riodo, che si apre intorno
al 1880, segnato dal sorgere
di un rapporto conflittuale e di contrasto nazionale italo-sloveno. Questo conflitto
si svilup- pa all’interno di una realtà politico-statale, la mo- narchia
asburgica, della quale le diverse
zone co- stituenti il Litorale
austriaco erano entrate
a far parte attraverso un secolare processo,
iniziato nel- la seconda metà del XIV secolo e conclusosi, con l’Istria veneziana, nel 1797. La plurinazionale mo- narchia
asburgica nella
seconda metà del XIX se-
colo appare incapace di dare vita a un sistema politico che rispecchiasse compiutamente
nelle strutture statali la multinazionalità
della società, ed è scossa pertanto da una questione delle na-
zionalità che essa non sarà in grado di risolvere.
All’interno di questa Nationalitätenfrage asburgica
si colloca il contrasto italo-sloveno, sul quale si ri- flettono anche i processi
di modernizzazione e di trasformazione economica, che toccano tutta l’Eu-
ropa centrale e la stessa area adriatica. Il rapporto
italo-sloveno appare così caratterizzato, secondo un modello che si ritrova anche in altri casi della società asburgica del tempo, da un contrasto tra coloro, gli italiani,
che cercano di difendere uno stato di possesso (Besitzstand)
politico-nazionale ed economico-sociale e coloro, gli sloveni,
che tentano invece di modificare o di ribaltare la si- tuazione esistente. Il problema è reso ancora più complesso dall’indubbio richiamo
culturale ed emotivo,
anche se non sempre politico,
che l’av- venuta proclamazione del Regno d’Italia
e forse più ancora
il passaggio a questo
stato dei vicini territori del Veneto e del Friuli esercitano sulle po- polazioni italiane d’Austria. Allo sguardo che gli italiani rivolgono oltre le frontiere della monarchia si contrappone la volontà slovena di rompere i confini
politico-amministrativi, che in Austria li di- vidono
tra diversi Kronländer (oltre ai tre del Lito- rale, la Carniola, la Carinzia e la Stiria), limitando-
ne i rapporti reciproci e la collaborazione politico-
nazionale. L’unione
del Veneto al Regno
d’Italia aveva determinato anche la nascita di una que- stione che tocca
direttamente le relazioni
italo- slovene: con il 1866 la Valle del Natisone, la Sla- via veneta,
entra a far parte dello stato italiano, la cui politica verso la popolazione slovena esprime
immediatamente la differenza tra un vecchio
sta-
to regionale,
la Repubblica di Venezia, e il nuovo stato
nazionale. Il Regno
d’Italia segue una linea di cancellazione del particolarismo linguistico, che ha le sue radici in una volontà
uniformizzatrice che non tiene in alcun conto neppure
l’atteggia- mento lealistico della popolazione che è oggetto di queste misure.
L’insorgere delle
questioni nazionali nell’impero Austro-ungarico
Intorno all’anno 1880 gli sloveni
si erano or- mai dotati
di basi sufficientemente solide per
un’autonoma vita
politica ed economica in tutte le unità politico-amministrative austriache
nelle quali essi vivevano.
Anche nel Litorale austriaco
il movimento po- litico
degli sloveni
del Goriziano, del Triestino e dell’Istria costituì parte integrante del movimento politico degli sloveni nel loro complesso.
Viene così a diminuire, per poi cessare quasi completamente nei decenni successivi, l’assimila- zione della popolazione slovena
(e anche croata) trasferitasi
nei centri cittadini e in particolare
a Trieste. La più viva coscienza politica e nazionale e la maggiore solidità economica sono alla base di questo
fenomeno che allarma le élites italiane, dà vita a
una politica spesso angusta di difesa
nazio- nale, che contrassegnerà la storia della regione si-
no al
1915, e contribuisce a rendere
più teso il rapporto tra i due gruppi nazionali, anche a causa delle contrastanti aspirazioni slovene e italiane
a una diversa delimitazione dei rispettivi territori
nazionali.
In
tutte le tre componenti territoriali del Lito- rale austriaco
(Trieste, Contea di
Gorizia e di Gra-
disca, Istria) sloveni
e italiani convivevano gli uni accanto
agli altri. Nel Goriziano la delimitazione nazionale appariva più netta,
con una separazio- ne longitudinale Occidente-Oriente,
etnicamente mista era solo la città di Gorizia, dove il numero degli sloveni era
però crescente, tanto da far rite- nere ad autori politici
sloveni alla vigilia del 1915 che il raggiungimento di una maggioranza slove- na nella città isontina
fosse ormai imminente. Trieste era a maggioranza italiana, ma il suo cir-
condario era sloveno. Anche in questo caso la po-
polazione slovena appariva
in ascesa. In Istria gli sloveni
erano presenti nelle zone
settentrionali, per la precisione nel circondario delle cittadine costiere a prevalenza italiana. In tutta l’Istria
il mo- vimento politico-nazionale degli sloveni si saldava
con quello croato, rendendo talora difficile
una trattazione distinta delle due componenti della realtà slavo-meridionale della penisola. Il caratte-
re peculiare degli insediamenti italiano
e sloveno
nel Litorale
è rappresentato dalla
fisionomia pre- valentemente urbana di quello italiano e eminen-
temente rurale di quello sloveno.
Questa distin- zione non va però assolutizzata, non devono es- sere dimenticati gli insediamenti rurali italiani
in Istria e in quella
parte del Goriziano detta allora
Friuli Orientale e quelli urbani sloveni
– oltre a tutto in espansione, come si è già detto – a Trie- ste e a Gorizia.
Ma anche se una separazione troppo marcata tra realtà
urbana e rurale
va evitata, il rapporto cit- tà-campagna rappresenta effettivamente un mo- mento
fondamentale della lotta politica nel Lito- rale, determinando anche un intersecarsi di moti- vi nazionali e sociali nel contrasto italo-sloveno, che ne renderà più difficile una composizione. Il nodo del rapporto tra città e campagna
sta anche alla base di
un dibattito politico
e storiografico tuttora in corso sull’autentica fisionomia naziona-
le della regione Giulia.
Da parte slovena si affer-
ma l’appartenenza delle città alla campagna,
sia perché nelle aree rurali si sarebbe conservata in- tatta, non alterata dal sovrapporsi di processi cul- turali e sociali, l’identità
originale di un territorio,
sia perché il volto nazionale delle città sarebbe
la conseguenza di processi di assimilazione che hanno
impoverito la nazione
slovena. La perdita dell’identità nazionale attraverso l’assimilazione è quindi
vissuta dagli sloveni,
ancora decenni dopo, come un’esperienza dolorosa e drammatica, che non deve ripetersi. Da parte italiana si replica con il
richiamo al principio
di appartenenza
nazionale come frutto di una scelta culturale e morale libe- ramente compiuta
e non di un’origine etnico-lin- guistica.
Tornando al nesso città-campagna, secondo l’interpretazione italiana
è invece la tradizione cul- turale e civile delle città che dà la propria impron- ta alla fisionomia e al volto di un territorio. Da que- sta differenza di impostazione deriveranno
anche i successivi contrasti
sul concetto di confine etnico e sul significato degli stessi dati statistici sulla nazio- nalità delle popolazioni in aree di frontiera, altera-
ti – a parere degli sloveni – dall’esistenza di pol- moni urbani prevalentemente italiani.
Nascita, crescita
e scontro tra patriottismi
Benché la questione nazionale all’interno del- la monarchia
asburgica presenti alcuni denomina- tori comuni, le condizioni
conflittuali nelle singole zone e quindi anche nel Litorale presentano pe- culiarità specifiche. La rapida crescita
del movi- mento politico ed economico sloveno e l’espan- sione demografica degli sloveni nelle città sono ri- condotte da parte italiana anche all’azione del- l’autorità governativa che avrebbe attuato
una po- litica di sostegno
all’elemento sloveno (ritenuto indubbiamente
più leale di quello
italiano, come risulta da dichiarazioni esplicite
di autorità austria-
che), per contrastare l’autonomismo e il naziona- lismo italiano. L’attribuzione di una fisionomia esclusivamente artificiale
all’espansione slovena non tiene però conto
di quella che è la naturale
forza di attrazione esercitata da centri urbani
ver- so le aree rurali e nel caso specifico a quella eser- citata da una grande città in crescita
dinamica co- me Trieste verso il suo circondario. Questo rap- porto risponde a leggi economiche, come hanno sottolineato Angelo Vigante e Scipio Slataper, e non solo a un disegno
politico.
Anche alla Chiesa cattolica,
come all’autorità governativa, gli ambienti nazionali e liberali italia- ni rimproverano frequentemente di svolgere una funzione filo-slovena,
affermazione questa suffra- gata dall’attiva partecipazione di sacerdoti al mo- vimento
politico sloveno.
Su
un piano politico-amministrativo l’asprezza
della questione nazionale impedisce o rende in- completo l’adeguamento delle istituzioni e dei rapporti linguistici ai princìpi costituzionali e alle idee liberali.
Le modifiche alle leggi elettorali lo- cali si mantengono nell’ambito del sistema censi- tario: in tal modo la
composizione dei consigli dietali e comunali non rispecchia le reali propor-
zioni numeriche esistenti
tra i gruppi nazionali
(ad esempio nella Dieta provinciale di Gorizia esisteva
una maggioranza italiana, anche
se gli sloveni co- stituivano i 2/3 della
popolazione di quel territo- rio). L’evoluzione delle disposizioni in materia lin- guistica
e lo
sviluppo delle strutture
scolastiche slovene e croate sono frenati
dagli organi politici
a maggioranza italiana, che impediscono una pie- na parificazione tra le lingue parlate nel Litorale,
due nella Contea di Gorizia e a Trieste e tre in Istria.
Nei
decenni che precedettero la prima guerra mondiale gli sloveni e gli italiani
non strinsero le- gami politici.
Costituisce un’eccezione la Dieta go-
riziana, nella quale si verificarono inconsuete al-
leanze tra i cattolici sloveni
e i liberali italiani. Tali legami indussero
in quella stessa Dieta provincia- le i liberali
sloveni e i cattolici italiani
a stringere intese contingenti. I cattolici italiani
del Goriziano avevano il proprio
punto di forza specie nella campagna friulana, dove agiva il partito popolare
friulano, i cui dirigenti furono
più tardi tacciati
di austriacantismo. Il tentativo di dare vita ad asso- ciazioni cattoliche sloveno-italiane, fallì,
né suscitò più tardi legami tra i due popoli il movimento cri- stiano-sociale.
Appare dunque evidente come le ragioni del- l’appartenenza
nazionale facessero premio su
quelle ideologiche. Questa tendenza
è ancora più chiara in Istria, dove il partito popolare
italiano è più vicino
a posizioni nazionali
e dove la vita poli- tica
è imperniata su una contrapposizione tra un blocco
italiano, che tenta di mantenere in vita la prevalenza italiana nelle istituzioni politiche e nel
sistema scolastico, e un blocco
croato-sloveno,
che cerca invece di modificare l’equilibrio esisten- te. In campo liberale e popolare-cattolico i due gruppi nazionali sono rappresentati in tutto il Li-
torale da partiti “nazionali” distinti e contrapposti. Si instaurano invece legami più solidi
nell’ambito del movimento socialista improntato all’interna- zionalismo benché nel Litorale austriaco esso si fosse dato un’organizzazione articolata in base a criteri
nazionali. Fu proprio l'affermazione di que- sto principio a contenere l’assimilazione dei lavo- ratori sloveni,
ma vi furono palesi attriti
fra i socia- listi delle due nazionalità e divergenze di vedute
spesso aspre si manifestarono anche successiva- mente, verso la fine della prima guerra mondiale,
nel corso delle discussioni sull’appartenenza sta- tale
di Trieste e
sulla sua identità
nazionale.
Un progetto croato,
che contemplava una co-
mune resistenza a una asserita
germanizzazione della monarchia asburgica, avrebbe
potuto dare vita a un “patto
adriatico” tra le nazioni gravitanti
sul Litorale, ma esso avrebbe,
secondo gli sloveni, attribuito agli italiani aree di influenza così estese da danneggiare gli interessi sloveni.
Reciproca intransigenza,
scarse iniziative per la convivenza
Il mancato sviluppo di un dialogo e di una co- operazione italo-sloveni incide profondamente sull’atmosfera di Trieste e, sia pure in misura mi- nore, anche di Gorizia
e dell’Istria alla vigilia del
1915.
Italiani e sloveni
guardano prevalentemente alla loro identità nazionale e si rivelano scarsa- mente capaci di sviluppare un senso di apparte- nenza
comune alla terra nella quale entrambi
i gruppi nazionali sono radicati. Gli sloveni perse- guono l’idea di una Trieste capace di alimentare l’attuazione dei loro programmi economici
e sot- tolineano il ruolo centrale
per il loro sviluppo di questa città, la cui popolazione slovena
sebbene minoritaria era superiore a quella della stessa Lu-
biana, in ragione della diversa consistenza demo-
grafica delle due città.
La loro espansione demografica li portava a ri- tenere
imminente il momento della conquista
della maggioranza della popolazione a Gorizia e inevitabilmente, sia pure in tempi più lunghi, un risultato analogo
a Trieste.
La maggioranza della popolazione
italiana
si raccoglie così intorno a una politica
di intransigen- te difesa nazionale, tesa a salvaguardare un’immu- tabile
fisionomia italiana della città. Se gli sloveni
guardano a un retroterra vicino, gli italiani si rivol- gono al più lontano retroterra dei territori interni della monarchia e anche al Regno d’Italia.
In campo italiano Ruggero Timeus sviluppa anche un nazionalismo radicale ed esasperato per quanto minoritario che è fondato sull’idea di una missione civilizzatrice in senso culturale e na-
zionale della città e sull’imperativo
di un’espan- sione economica dell’italianità nell’Adriatico.
La forza politica più rappresentativa degli ita- liani
di Trieste è
però il partito liberale-nazionale, nel quale sopravvive una minoranza legata
all’a- spirazione mazziniana mentre la maggioranza
ve- de il compito immediato
dell’irredentismo nella difesa dell’identità italiana della città e delle sue istituzioni.
In questo
clima teso e infuocato vennero
alla luce anche idee di personalità del mondo della cultura che si innestarono sul solco segnato
dagli autori della rivista
“La Favilla” nella fervida atmo- sfera del 1848.
Si trattò
del gruppo che si raccolse intorno
al- la rivista fiorentina “La Voce”, resasi promotrice di iniziative rivolte alla convivenza tra i popoli non- ché alla conoscenza
e al
riconoscimento della realtà plurietnica di Trieste e
del suo circondario. A questa rivista collaborarono alcuni
giovani trie- stini, tra i quali
Slataper e i fratelli Carlo e Gianni Stuparich. In opposizione all’irredentismo politico essi definiscono la loro posizione
con termine di irredentismo culturale
e intendono sviluppare la cultura italiana nel confronto
e nel dialogo con quelle
slavo-meridionali e tedesca. Trieste assume quindi per loro la funzione di luogo di incontro tra popoli e civiltà diversi;
la loro concezione politica sino al 1914 è quindi molto simile a quella del so- cialismo triestino. Del resto proprio nelle edizioni de
“La voce” viene pubblicato il più maturo
risul- tato del pensiero
socialista, e cioè il volume di Vi- vante
sull’irredentismo adriatico. Dal versante slo- veno non si ebbero riscontri incoraggianti né si re- gistrarono reazioni
a questo libro. Gli sloveni ap-
parivano ancora impegnati nella ricerca di una propria identità
e incapaci di incamminarsi alla scoperta di altre identità.
Rari
furono coloro i qua-
li riuscirono ad ergersi al di sopra delle barriere nazionalistiche, si vedano ad esempio
alcuni giu- dizi sulla questione
della fondazione dell’universi-
tà a Trieste. Le tensioni
erano troppo acute e agli sloveni pareva preferibile e più a portata di mano una soluzione
slavo-meridionale della crisi che at- tanagliava la monarchia austriaca
alla vigilia dello scoppio del primo conflitto
mondiale.
L’irredentismo parte integrante
della politica italiana
Con
la prima guerra mondiale
il programma dell’irredentismo diventa parte integrante della politica italiana, sia pure nella convinzione – che
durerà almeno sino alla primavera del 1918 – che l’Austria-Ungheria, anche
se profondamente ridi- mensionata sotto il profilo
territoriale, sarebbe so- pravvissuta al conflitto. Prima ancora dell’entrata
in guerra dell’Italia, il diplomatico italiano
Carlo Galli nel corso di una missione a Trieste incontrò, per incarico del suo governo, esponenti sloveni.
Per
la dirigenza slovena
si trattò dei primi contatti
ufficiali con uno stato straniero. Già con il patto di Londra però il governo italiano adottò un pro- gramma di espansione, nel quale accanto alle motivazioni nazionali erano presenti
ragioni geo- grafiche e strategiche. Il più diffuso lealismo
slo- veno nei confronti dello stato austriaco trasse ul- teriore alimento
dalle prime voci sugli aspetti im- perialistici del patto di Londra e sulle soluzioni
in esso adottate in merito al confine orientale del Regno d’Italia nonché dall’atteggiamento delle autorità militari italiane nelle prime zone occupa-
te. Un parziale revirement italiano si determinò dopo la sconfitta di Caporetto, dando luogo a una politica di dialogo con le nazionalità
soggette d’Austria-Ungheria, che culminò nel congresso di Roma dell’aprile 1918 e in un’intesa con il comi- tato jugoslavo. Mentre il persistere del lealismo asburgico sembra ormai contraddittorio
di fronte ai processi
di disgregazione interna che scuotono lo
stato austro-ungarico, tra gli sloveni si diffondo- no l’idea del diritto
all’autodeterminazione e quel- la della solidarietà jugoslava. Nella fase finale del- la guerra
e all’inizio del dopoguerra si palesa con tutta evidenza il contrasto tra una tesi slovena e jugoslava, tendente a un confine “etnico”, che af- fonda
le sue radici nella concezione dell’apparte- nenza della città alla campagna e che sostanzial- mente coincide con il confine italo-austriaco del
1866,
e una tesi italiana, mirante
a un confine geografico e strategico, determinata dal prevalere
nella penisola delle correnti più radicali
e dalla necessità politico-psicologica di garantire una frontiera sicura
alle città e alla costa istriane,
pre- valentemente italiane, e di offrire all’opinione
pubblica segni tangibili di ingrandimenti territoria- li, che compensassero gli enormi sacrifici richiesti al paese durante
la guerra.
Periodo 1918 -1941
La vittoria italiana e l’oppressione fascista
L’Italia, vittoriosa nella prima guerra
mondiale, concluse così il proprio processo di unificazione
nazionale, inglobando nel contempo, oltre agli sloveni residenti nelle città e nei centri
minori a maggioranza italiana,
anche distretti interamente
sloveni, situati anche al di fuori del vecchio Litora- le austriaco ed estranei
allo stesso concetto di Ve- nezia
Giulia italiana, come era stato elaborato
ne- gli ultimi decenni.
Ciò suscitò reazioni
opposte fra le diverse
componenti nazionali residenti
nei ter- ritori dapprima occupati
e poi annessi: gli italiani,
infatti, accolsero con entusiasmo la nuova situa- zione, mentre per gli sloveni, che si erano impe- gnati
per l’unità nazionale
e si erano già alla fine della guerra dichiarati a favore del nascente stato jugoslavo, l’inglobamento nello
stato italiano
comportò
un grave trauma. Il nuovo assetto del confine, il cui tracciato
era stato fissato sin dal patto di Londra del 1915 e che seguiva la linea displuviale tra il mar Nero e l’Adriatico, strappò dal ceppo
nazionale un quarto del popolo sloveno
(327.230 unità secondo il censimento austriaco del 1910, 271.305 secondo il censimento italiano del 1921, 290.000
secondo le stime di Carlo
Schiffrer), ma la crescita del numero degli sloveni
presenti in Italia non influì
sulla
situazione
di quelli
della Slavia veneta
(circa 34 mila unità se-
condo il censimento del 1921) già presenti nel territorio del Regno, ritenuti
ormai assimilati e ai
quali non venne pertanto riconosciuto alcun dirit- to
nazionale.
L’amministrazione italiana, dapprima militare e
poi civile, mostrò una notevole impreparazione ad affrontare i delicati
problemi nazionali e politi- ci
dei territori occupati,
dove si riscontravano con- sistenti insediamenti – in ampie zone maggiorita- ri
– di popolazioni non italiane
che aspiravano al- l’unione con la propria “madrepatria” (nel caso degli sloveni
e dei croati della Venezia Giulia,
il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni)
e che avevano compiuto
per lo più la loro acculturazio-
ne politica nell’ambito dello
stato plurinazionale asburgico. Tale impreparazione, unita
al retaggio della
guerra appena conclusa
– in cui gli slavi era-
no stati considerati come nemici,
strumenti privi- legiati dell’oppressione austriaca – provocò da parte delle autorità italiane
comportamenti forte- mente contraddittori. Da un lato,
nel
periodo
1918-20,
quando
il
confine
italo-jugoslavo non era ancora
definito, le autorità
di occupazione, in- fluenzate
pure dagli elementi nazionalisti locali, usarono volentieri la mano pesante
nei confronti degli sloveni
che intendevano manifestare la pro- pria volontà di annessione alla Jugoslavia. Furono così assunti numerosi
provvedimenti restrittivi – sospensione di amministrazioni locali, sciogli-
mento di consigli nazionali, limitazioni della liber- tà di associazione, condanne dei tribunali militari,
detenzione di militari ex austriaci, internamento ed espulsione, specie di intellettuali
– che pena-
lizzarono la ripresa della vita culturale e politica della componente slovena. Al tempo stesso le au- torità
di occupazione favorirono le manifestazioni di italianità anche per fornire alle trattative per la
definizione del nuovo confine
un quadro politica-
mente italiano delle regioni. D’altra parte, i gover-
ni liberali italiani, pur all’interno di un disegno ge-
nerale di nazionalizzazione dei territori annessi, furono generosi di promesse nei confronti
della minoranza slovena e consentirono il rinnovo del- le sue rappresentanze nazionali, il riavvio dell’i- struzione scolastica in lingua slovena
e la ripresa di attività delle organizzazioni indispensabili per lo sviluppo del gruppo nazionale sloveno.
Anche il progetto – sostenuto da esponenti politici
giu-
liani e trentini, e che i governi prefascisti presero in seria considerazione – di conservare ai
territori annessi forme di autonomia
non lontane da quel- le già godute in epoca asburgica, avrebbe favorito
un migliore rapporto fra le componenti minorita- rie e lo stato.
Inoltre, il Parlamento italiano
formu- lò voti in favore
di una politica di tutela
della mi- noranza slava.
L’irremovibilità delle delegazioni italiana
e ju- goslava alla conferenza di Parigi sul problema
del- la definizione del nuovo confine ritardò
la stabiliz- zazione politica dei territori sottoposti al regime di occupazione, acuendo i contrasti nazionali. Il for- marsi del mito della “vittoria mutilata” e l’impresa dannunziana di Fiume, pur non riguardando diret- tamente l’area abitata da sloveni, accesero
ulte- riormente gli animi e costituirono il terreno ideale per
l’affermarsi precoce del “fascismo di frontie- ra”, che si erse a tutore degli interessi italiani
sul confine orientale e coagulò gran
parte delle loca- li forze
nazionaliste italiane attorno all’asse del- l’antislavismo combinato
con l’antibolscevismo. Il movimento socialista vedeva infatti una larga ade- sione degli sloveni – fiduciosi nei suoi princìpi
di giustizia sociale e di eguaglianza nazionale – che contribuirono a far prevalere al suo interno le componenti rivoluzionarie: anche da ciò in segui-
to derivò la coniazione da parte fascista del neo- logismo “slavocomunista” che alimentò ulterior- mente l’estremismo nazionalista. Nel luglio
del
1920, l’incendio del Narodni Dom, la sede delle organizzazioni slovene di Trieste –
che trasse pre- testo dagli incidenti verificatisi a Spalato e che provocarono vittime sia italiane
sia jugoslave
– non fu così che il primo, clamoroso atto di una lunga sequela
di violenze: nella Venezia Giulia co- me altrove in Italia la crisi dello stato liberale offrì infatti campo libero all’aggressività
fascista, che si giovò
di aperte collusioni con l’apparato dello sta- to, qui ancor più forti che altrove, come conse-
guenza della diffusa ostilità antislava. Le “nuove province” d’Italia nascevano così con pesanti con- traddizioni tra principio di nazionalità,
ragion di stato e politica di potenza, che minavano alla ba-
se la
possibilità della civile convivenza tra gruppi nazionali diversi.
Un quarto del
popolo sloveno
entro i confini italiani
Il trattato di Rapallo, sottoscritto nel novembre del 1920 tra il Regno d’Italia
e quello dei Serbi,
Croati e Sloveni, accolse in pieno le esigenze ita- liane e amputò
un quarto abbondante dell’area considerata dagli sloveni come proprio “territorio
etnico”. Tale esito era dovuto alla favorevole posi- zione negoziale dell’Italia che usciva dalla grande Guerra come vincitrice e riconfermata nel suo sta- tus
di “grande potenza”. Il trattato,
che non vinco- lò l’Italia al rispetto delle minoranze slovena e
croata,
garantiva invece la tutela della minoranza
italiana in Dalmazia: ciò nonostante si verificò un trasferimento di alcune migliaia
di italiani da que- sta regione al Regno d’Italia. Clausole
riguardanti la tutela delle minoranze
nella Venezia Giulia non vennero incluse nemmeno nei
successivi trattati del 1924 e del 1937 stipulati per avviare da parte
jugoslava buoni rapporti con la potente vicina. Nelle intenzioni dei suoi negoziatori, italiani
e ju- goslavi, il
trattato di Rapallo
avrebbe dovuto porre le premesse
per una reciproca amicizia e collabo- razione fra i due stati. Così invece non fu e ben presto
la politica estera
del fascismo si incammi- nò
lungo la via dell’egemonia adriatica
e del revi- sionismo, assumendo crescenti
connotati anti-ju- goslavi; tale orientamento fu sostenuto anche da
gruppi capitalistici, non solo triestini, interessati a
espandersi nei Balcani
e nel bacino danubiano e trovò non pochi consensi nella popolazione italia- na della Venezia Giulia. Presero corpo anche pro- getti di distruzione della compagine jugoslava, so- lo momentaneamente accantonati con gli accordi Ciano-Stojadinovic del 1937, che sembrarono per breve
tempo preludere all’ingresso della
Jugosla- via nell’orbita italiana.
Lo scoppio della guerra mondiale avrebbe trasformato tali progetti in un preciso
disegno di aggressione.
Nonostante la difficile situazione
esistente nel- la Venezia Giulia, la politica degli esponenti slove- ni
e croati – tra cui i loro rappresentanti al parla-
mento – fu improntata al lealismo nei confronti dello stato italiano, anche dopo l’avvento del fa- scismo; tra l’altro, essi non aderirono
all’opposi- zione legale quando nel 1924 essa si
ritirò sull’A- ventino in segno di protesta contro
il delitto Mat- teotti. Malgrado ciò, la loro battaglia
parlamentare per la tutela dei diritti nazionali degli sloveni e dei croati, condotta in comune con i deputati
della minoranza tedesca
dell’Alto Adige, non diede al-
cun risultato, anzi, il regime fascista
si impegnò a fondo,
anche per via legislativa,
nella snazionaliz- zazione di tutte le minoranze nazionali.
Così
nella Venezia Giulia vennero
progressivamente elimina-
te tutte le istituzioni nazionali
slovene e croate rinnovate dopo la prima guerra
mondiale. Le scuole furono
tutte italianizzate, gli insegnanti in gran parte pensionati, trasferiti all’interno del re- gno,
licenziati o costretti
a emigrare, posti limiti all’accesso degli sloveni al pubblico
impiego, sop- presse centinaia di associazioni culturali, sportive,
giovanili, sociali, professionali, decine di coopera- tive economiche e istituzioni finanziarie, case po- polari, biblioteche ecc. Partiti politici e stampa pe- riodica vennero posti fuori
legge, eliminata fu la
possibilità di qualsiasi rappresentanza delle mino- ranze nazionali,
proibito l’uso
pubblico della
lin- gua. Le minoranze slovena
e croata cessarono co-
sì di esistere come forza politica e i loro rappre-
sentanti fuoriusciti continuarono ad operare tra-
mite il Congresso delle nazionalità europee, sotto la presidenza di Josip Vilfan, cooperando così al- l’impostazione di una politica generale
per la so- luzione delle problematiche minoritarie.
La politica di snazionalizzazione del fascismo
L’impeto snazionalizzatore del fascismo andò però anche oltre la persecuzione politica,
nell’in- tento di arrivare alla “bonifica etnica”
della Vene- zia Giulia. Così, l’italianizzazione dei toponimi slo- veni
o l’uso esclusivo della loro forma italiana,
dei cognomi e dei nomi personali si accompagnò alla promozione dell’emigrazione,
all’impiego di ele- menti
sloveni all’interno del paese e nelle colonie,
all’avvio di progetti di colonizzazione agricola in- terna da parte di elementi italiani, ai provvedi- menti economici mirati a semplificare drastica- mente la struttura della società
slovena, eliminan- done gli strati superiori
in modo da renderla con- forme allo stereotipo dello slavo incolto
e campa- gnolo, ritenuto facilmente assimilabile dalla “su- periore” civiltà
italiana. A tali disegni
di più ampio respiro si accompagnò una politica repressiva as- sai brutale. Vero è che nella medesima
epoca la maggior parte degli stati europei mostrava
scarso rispetto per i diritti
delle minoranze
etniche pre- senti sul loro
territorio, quando addirittura non cercava in vari modi di conculcarli, ma ciò non to- glie che la politica di “bonifica etnica”
avviata dal fascismo sia risultata particolarmente pesante, an-
che perché l’intolleranza nazionale, talora venata
di vero e proprio razzismo, si accompagnava alle misure totalitarie del regime.
L’azione snazionalizzatrice fascista si diresse anche contro la Chiesa cattolica, dal momento che
fra gli sloveni – dispersi e in esilio quadri diri- genti e intellettuali
– fu il clero ad assumere
il ruolo di punto di riferimento per la coscienza na- zionale, in continuità con la funzione
già svolta in epoca asburgica. I
provvedimenti repressivi colpi- rono direttamente il basso clero, oggetto
di ag- gressioni
e provvedimenti di polizia, ma forti pres-
sioni vennero condotte anche verso la gerarchia ecclesiastica di Trieste e
Gorizia, in cui l’alto clero si
era nei decenni
precedenti guadagnato da par- te
dei nazionalisti italiani
una solida fama di au- striacantismo e filo-slavismo. Tappe fondamentali dell’addomesticamento della Chiesa
di confine – il cui esito va inserito nell’ambito dei nuovi rap- porti fra Stato e Chiesa
avviati dal fascismo
– fu- rono la rimozione
dell’arcivescovo di Gorizia Fran- cesco Borgia Sedej e del vescovo di Trieste Luigi Fogar. I loro successori applicarono le direttive
“romanizzatrici” del Vaticano,
in conformità a quanto avveniva
anche nelle altre regioni italiane ove esistevano comunità “alloglotte”, come
pure nelle realtà europee caratterizzate dalla presenza di fenomeni simili: tali direttive infatti miravano ad offrire il minimo di occasioni di ingerenza in
materia ecclesiastica ai governi,
totalitari e non, e
a compattare i fedeli attorno a Roma, in
difesa dei princìpi cattolici che la Santa Sede riteneva mi- nacciati
dalla civiltà moderna. Questi provvedi- menti comportavano in via di principio l’abolizio-
ne dell’uso della lingua slovena
nella liturgia e nella catechesi; essa tuttavia fu mantenuta in for- ma clandestina soprattutto in ambito rurale, a opera dei sacerdoti organizzati nella corrente cri- stiano sociale.
Tale situazione provocò
gravi ten- sioni tra i fedeli
e i sacerdoti slavi da un lato,
e i nuovi vescovi dall’altro, e le difficoltà furono acui- te dal diverso modo d’intendere il ruolo del clero,
cui gli sloveni attribuivano una funzione prioritaria
nella difesa dell’identità nazionale, che appariva
invece agli ordinari diocesani italiani
frutto di una deformazione nazionalista. Gli sloveni e i croati si
formarono così la convinzione che la gerarchia ec- clesiastica stesse di
fatto collaborando con il regi-
me a
un’opera di italianizzazione che investiva ogni campo della vita sociale.
Gli
anni Venti e Trenta furono per i territori
an- nessi un periodo
di crisi economica,
solo tardiva- mente interrotta dalla politica autarchica: alle dif- ficoltà generali segnate dalle economie europee
fra le due guerre si sommarono infatti
gli effetti negativi della ristrutturazione e frantumazione dell’area danubiano-balcanica, vitale per le fortu-
ne economiche delle terre giuliane.
I provvedi- menti compensativi assunti dallo stato italiano
non riuscirono a invertire la tendenza
negativa del periodo, dal momento che le
sue cause profonde
– vale a dire la rottura dei legami con i retroterra
– sfuggivano alla capacità
di intervento sia delle forze
locali sia della
stessa Italia.
Ciò dimostrò l’assurdità delle teorie
imperialiste, predilette dai nazionalisti italiani,
che speravano di fare di Trie- ste e della Venezia Giulia la base per la penetra-
zione italiana nell’Europa centro-orientale e bal- canica, ma procurò anche blocco delle prospetti- va di sviluppo e, spesso, riduzione
del tenore di vita specie
negli strati inferiori della società,
nei quali più numerosi erano gli sloveni. Difficoltà
economiche e pesantezza del clima politico favo- rirono fra le due guerre un robusto flusso migra- torio della Venezia Giulia:
le fonti non ci consen- tono di quantificare con precisione l’apporto slo- veno
a tale fenomeno, che coinvolse
anche ele- menti italiani,
ma certo esso fu cospicuo, nell’or- dine presumibile delle decine di migliaia di unità. Secondo stime jugoslave emigrarono complessi- vamente 105.000 sloveni
e croati; e se nei casi di emigrazione
transoceanica è più difficile tracciare un confine fra
motivazioni economiche e politi- che, nel caso degli espatri in Jugoslavia, che coin- volsero soprattutto giovani e intellettuali, il colle- gamento diretto con le persecuzioni politiche
del fascismo è ben evidente.
Un programma di
distruzione dell’identità nazionale slovena e croata
Ciò che infatti il fascismo cercò di realizzare nella Venezia Giulia fu un vero
e proprio pro- gramma di distruzione integrale
dell’identità na- zionale slovena e croata. I risultati ottenuti
furono però alquanto
modesti, non per mancanza di vo-
lontà, ma per
quella carenza di risorse che, in questo
come in altri campi rendeva velleitarie le aspirazioni totalitarie del regime. La politica
sna- zionalizzatrice riuscì infatti
a decimare la popola- zione slovena a Trieste e
Gorizia, a disperdere lar- gamente gli intellettuali e i ceti borghesi e a pro- letarizzare la popolazione
rurale, che però, no-
nostante tutto, rimase compattamente insediata sulla propria terra. Il risultato
più duraturo rag- giunto dalla politica fascista fu
però quello di con-
solidare, agli occhi degli sloveni, l’equivalenza fra Italia e fascismo
e di condurre la maggior parte
degli sloveni (vi furono infatti
alcune frange che aderirono al fascismo) al rifiuto di quasi tutto ciò che appariva italiano. Analogo atteggiamento
di ostilità fu assunto anche dagli sloveni
in Jugosla- via anche se, alla metà degli anni Trenta, l’ideolo-
gia corporativa del fascismo
attirò alcuni ambien- ti politici
cattolici. Un certo interesse
per la lette- ratura italiana
venne manifestato da parte slovena
specialmente sul piano della traduzione
e della promozione di opere di autori italiani,
mentre as- sai limitata fu l’attenzione degli italiani verso la letteratura slovena, anche se vi furono alcune ini- ziative, specie nel campo
delle traduzioni. Natu- ralmente, a livello di rapporti personali e di vici- nato, come pure in campo culturale
e artistico, continuarono a sussistere ambiti in cui la convi-
venza e la collaborazione erano normali,
e ciò avrebbe mantenuto
preziosi germi che l’antifasci-
smo e
l’aspirazione alla democrazia avrebbero sviluppato, ma in linea generale
il solco fra i due gruppi nazionali si approfondì e nei territori
giu- liani si svilupparono varie forme di resistenza con-
tro l’oppressione fascista. In
particolare la gioven-
tù slovena di orientamento nazionalista, raccolta nell’organizzazione Tigr, collegata anche ai servizi jugoslavi e dalla vigilia della guerra anche a
quel- li britannici, decise di reagire alla violenza
con la violenza sviluppando azioni dimostrative e atti di terrorismo che provocarono repressioni durissi- me. Di fronte alla durezza della repressione fasci- sta, le organizzazioni clandestine slovene assieme a quelle dei fuoriusciti in Jugoslavia decisero, ver- so
la metà degli anni Trenta, di abbandonare le ri- vendicazioni di autonomia culturale nell’ambito
dello stato italiano
per porsi invece come obietti-
vo il distacco dall’Italia dei territori considerati et- nicamente sloveni
e croati. Come risposta a tale
attività di resistenza, il
Tribunale speciale per la di- fesa dello stato comminò molte condanne a pene detentive e 14 condanne capitali,
10 delle quali eseguite.
Il PCI e il movimento
degli sloveni e dei croati
Da
parte sua, il partito comunista d’Italia ma- turò lentamente il riconoscimento come
alleato del movimento
irredentista sloveno, a lungo con- siderato un fenomeno borghese:
la svolta si ebbe solo
negli anni Trenta, sotto l’influenza dell’Inter- nazionale, che per dare impulso alla lotta contro nazismo e fascismo prevedeva il collegamento con le forze
nazional-rivoluzionarie per la costitu- zione dei fronti popolari.
Fin dal 1926 il PCd’I ri- conobbe
agli sloveni e ai croati residenti entro i confini
d’Italia il diritto all’autodeterminazione e
alla separazione dallo stato italiano, fermo restan-
do che il criterio dell’autodecisione doveva valere anche per gli italiani. Nel 1934 poi il PCd’I
sotto- scrisse assieme ai partiti comunisti della Jugosla- via e dell’Austria un’apposita dichiarazione sulla
soluzione della questione
nazionale slovena, im- pegnandosi altresì in favore dell’unificazione del popolo sloveno
entro uno stato proprio.
L’interpretazione da dare a tali risoluzioni sa- rebbe risultata particolarmente controversa du- rante la seconda
guerra mondiale, quando
il mo- vimento di liberazione sloveno si trovò nella con- dizione di attuare nella prassi il proprio program- ma irredentista.
A ogni modo, il patto d’azione
sti- pulato nel 1936 tra il PCd’I e il movimento rivolu- zionario nazionale degli sloveni e dei croati avviò la formazione di un ampio fronte antifascista, mentre nella Venezia Giulia debole rimase la con-
sistenza dell’antifascismo italiano
d’impronta libe- rale
e risorgimentale.
Va comunque ricordata la collaborazione che si sviluppò alla fine degli anni Venti fra il movimento nazionale sloveno clande-
stino e le forze antifasciste democratiche italiane
in esilio (e specialmente con il movimento
Giusti- zia e Libertà), nel cui ambito la parte slovena si
impegnò ad alimentare l’attività antifascista in
tut- ta l’Italia, mentre da parte italiana agli sloveni e ai
croati venne riconosciuto il diritto all’autonomia e, in
alcuni casi, alla revisione dei confini. Tale colla-
borazione si interruppe quando tra gli sloveni
pre- valse la linea secessionistica.
Periodo 1941-1945
Slovenia invasa e smembrata:
la provincia
“italiana” di Lubiana
Dopo
l’attacco tedesco contro l’URSS la
guerra in Europa, specie in quella
orientale, divenne to- tale e diretta alla completa eliminazione degli av- versari. Il diritto
internazionale
ed anche le più elementari norme etiche
vennero in quegli anni violate
dai contendenti con impressionante fre- quenza ed anche le terre a nord dell’Adriatico vennero coinvolte
in questa spirale di violenza.
La
seconda guerra mondiale scatenata dalle forze dell’Asse introdusse nei rapporti sloveno-ita-
liani dimensioni nuove che condizionarono il fu- turo
di tali rapporti. Se infatti per un verso l’attac-
co contro la Jugoslavia del
1941 e la successiva occupazione del territorio sloveno acuirono al massimo la tensione fra i due popoli, nel suo in- sieme il tempo di guerra vide una serie di svolte drammatiche nelle relazioni fra italiani e sloveni.
L’occupazione del 1941
rappresentò così per lo Stato italiano
il culmine della
sua politica di po- tenza,
mentre gli sloveni
toccarono con l’occupa- zione e lo smembramento il fondo di un precipi-
zio; la fine della guerra
rappresentò, per converso, per il popolo sloveno
una fase trionfale, mentre la maggior parte della popolazione della Venezia Giulia fu invece assalita
nel 1945 dal timore del naufragio nazionale.
La distruzione del regno jugoslavo
si accom- pagnò allo smembramento non solo della com- pagine statale
jugoslava, ma anche della Slovenia
in quanto realtà unitaria: la divisione del paese tra
Italia, Germania ed Ungheria pose gli sloveni
di fronte alla prospettiva dell’annientamento della loro
esistenza come nazione di un milione
e mez- zo di abitanti e ciò li motivò alla resistenza contro gli
invasori.
L’aggressione
dell’Italia contro la Jugoslavia segnò il culmine della politica ventennale impe- rialista del fascismo, rivolta
anche verso i Balcani
ed il
bacino danubiano. In contrasto con il diritto di guerra che non ammette l’annessione di terri- tori occupati nel corso
di azioni
belliche prima
della stipula di un trattato
di pace, la Provincia di Lubiana fu annessa al Regno d’Italia. Alla popola- zione della Provincia di Lubiana, di circa 350.000 abitanti, era stato garantito uno statuto di autono- mia
etnica e culturale; tuttavia
le autorità di occu-
pazione italiane manifestarono il fermo proposito
di integrare quanto prima la regione nel sistema
fascista italiano, subordinandone le istituzioni e le organizzazioni a quelle omologhe
italiane. L’attra- zione politica, culturale
ed economica dell’Italia avrebbe dovuto condurre gradualmente alla fasci- stizzazione ed all’italianizzazione della popolazio- ne locale. Sulle prime l’aggressione fascista
aveva previsto di poter soggiogare
gli sloveni grazie ad un’asserita superiorità della civiltà italiana, perciò il regime d’occupazione
inizialmente instaurato dalle autorità italiane
fu piuttosto moderato.
Resistenza – Repressione – Deportazioni
A fronte di quello nazista,
esso appare perciò agli occhi degli sloveni
un male minore, ed otten- ne per questo alcune forme di collaborazione, an- che se le stesse forze politiche
che vi accondisce- sero non lo fecero necessariamente in virtù
di orientamenti filofascisti; gran parte degli
sloveni confidava infatti, dopo un periodo
di iniziale in- certezza, nella vittoria delle armi alleate e vedeva
il futuro del popolo sloveno
a fianco della coali-
zione delle forze antifasciste. Fra i
gruppi politici sloveni si manifestarono però due diverse
vedute di fondo sulla strategia da seguire.
La prima, pro- pugnata dal Fronte di Liberazione (OF), sosteneva la necessità
di avviare immediatamente la resi-
stenza contro l’occupatore: vennero perciò forma- te le prime unità partigiane che condussero azio- ni militari contro
le forze occupatrici, mentre ai piani italiani di avvicinamento
culturale il movi- mento di liberazione rispose con il “silenzio cultu- rale”. Aderirono al Fronte di Liberazione apparte- nenti a tutti i ceti della popolazione senza distin- zione di credo politico
ed ideale. L’altra opzione, maturata in seno agli esponenti delle forze libe- ral-conservatrici, suggeriva
invece agli sloveni
di prepararsi clandestinamente e gradualmente alla liberazione ed alla resa dei conti con l’occupatore
alla fine della guerra. Certamente, tanto il Fronte di Liberazione che lo schieramento opposto, fa- cente capo al governo monarchico
jugoslavo in esilio a Londra, convergevano sull’obiettivo della
Slovenia unita, comprendente tutti i territori con- siderati sloveni nel quadro di una Jugoslavia fede- rativa.
Al
crescente successo delle azioni partigiane ed al radicalizzarsi della contrapposizione fra la
popolazione e gli occupatori, Mussolini rispose
trasferendo i poteri dalle autorità
civili a quelle militari, che adottarono drastiche misure repressi- ve. Il regime d’occupazione fece leva sulla violen- za
che si manifestò con ogni genere di proibizio- ni, con le misure di confino, con
le deportazioni e
l’internamento nei numerosi
campi istituiti in Ita-
lia (fra i quali vanno ricordati quelli di Arbe, Go-
nars e Renicci), con i processi dinanzi
alle corti militari, con il sequestro e la distruzione dei beni, con l’incendio di case e villaggi. Migliaia furono
i morti, fra caduti in combattimento, condannati a morte, ostaggi fucilati
e civili uccisi. I deportati fu- rono approssimativamente 30 mila, per lo più ci- vili, donne e bambini,
e molti morirono di stenti.
Furono concepiti pure disegni di deportazione
di massa degli sloveni residenti nella provincia. La violenza raggiunse il suo apice nel corso dell’of- fensiva italiana del 1942, durata quattro mesi, che si era prefissa di ristabilire il controllo italiano
su tutta la Provincia
di Lubiana.
Improntando la propria politica
al motto “divi- de et impera”, le autorità italiane
sostennero le forze politiche
slovene anticomuniste, specie d’i- spirazione cattolica, le quali, paventando la rivolu-
zione comunista, avevano
in quel modo indivi-
duato nel movimento partigiano il pericolo mag- giore, e si erano rese perciò disponibili alla colla-
borazione. Esse avevano così creato delle forma- zioni di autodifesa che i comandi
italiani, pur dif- fidandone, organizzarono nella Milizia volontaria
anticomunista, impiegandole con successo
nella lotta antipartigiana.
La lotta partigiana si estende al Litorale
La lotta di liberazione si estese ben presto dal- la Provincia di Lubiana alla popolazione slovena del Litorale che aveva vissuto per un quarto di se-
colo entro il nesso statale italiano. Ciò riaprì la questione dell’appartenenza statale
di buona par- te
di questo territorio e rese manifesti non solo l’assoluta inefficacia della politica
del regime fa- scista nei confronti degli sloveni, bensì pure il fal-
limento generale della politica italiana
sul confine orientale. Contro la popolazione slovena erano stati adottati
provvedimenti di carattere preventi- vo sin dall’inizio della guerra: l’internamento ed il confino dei
personaggi di punta, l’assegnazione dei coscritti ai battaglioni speciali, l’evacuazione della popolazione lungo il confine,
le condanne alla pena capitale
nel quadro del secondo proces- so del Tribunale speciale svoltosi
a Trieste. Fra gli
sloveni della Venezia Giulia
la lotta di liberazione capeggiata dal partito comunista trovò un terreno particolarmente fertile, perché aveva fatte proprie le
loro tradizionali istanze
nazionali tese all’annes- sione alla Jugoslavia di tutti
i territori abitati da sloveni, anche di quelli in cui si riscontrava una maggioranza
italiana. Il PCS si
era così assicurato l’assoluta egemonia sul movimento
di
massa e grazie alla lotta armata anche l’opportunità
di at- tuare sia la liberazione nazionale che la rivoluzio- ne sociale. Nell’opera di repressione del movi- mento
di liberazione le autorità italiane
ricorsero ai metodi repressivi già sperimentati nella Provin- cia di Lubiana, ivi compresi gli incendi di villaggi e
la fucilazione di civili. A tal fine furono apposita- mente creati l’Ispettorato speciale per la pubblica
sicurezza e due nuovi corpi d’armata dell’esercito italiano. Le operazioni militari
si estesero pertanto anche
sul territorio dello stato italiano.
L’armistizio del
settembre 1943 e l’occupazione tedesca
Nei giorni successivi all’8 settembre 1943
le forze armate ed elementi dell’amministrazione ci- vile
italiana poterono lasciare i territori sloveni senza contrasto e giovandosi
anche dell’aiuto del- la popolazione locale. Le conseguenze dell’armi- stizio comunque
rappresentarono una svolta chia-
ve nei rapporti sloveno-italiani. La configurazione
prevalente da essi assunta sino ad allora,
che ve- deva gli italiani-occupatori ovvero nazione domi- nante e gli sloveni-occupati ovvero popolo op- presso,
si fece più complessa. Sotto il profilo
psi- cologico ed anche in termini reali la bilancia s’in-
clinò a favore degli sloveni.
L’adesione della po- polazione slovena della Venezia Giulia al movi- mento partigiano, le azioni
delle formazioni mili- tari e degli organismi
di potere resero testimo- nianza della volontà di tale popolazione che que- sto territorio appartenesse alla Slovenia unita. Ta- le determinazione fu sancita nell’autunno del
1943
dai vertici del movimento
sloveno e fu suc-
cessivamente
fatta propria anche a livello
jugosla- vo. Anche nella Venezia Giulia gli sloveni interven-
nero così in veste di attore politico; ne tennero conto entro un certo limite anche
le autorità te- desche che, prendendo atto dell’assetto etnico e
reale del territorio, cercarono
di interporsi stru- mentalmente come mediatrici fra italiani e slavi.
I tedeschi comunque, per mantenere il con-
trollo del territorio, fecero
ricorso all’esercizio estremo della violenza, per la quale si servirono pure della collaborazione
subordinata di forma- zioni militari
e di polizia italiane, ma anche slove- ne. Essi inoltre utilizzarono gli apparati ammini-
strativi italiani ancora
esistenti nei centri maggiori della
regione, nonché
strutture di collaborazione istituite appositamente e, nella logica del “divide et
impera”, sempre strumentalmente accolsero al- cune richieste slovene nel campo dell’istruzione e dell’uso della lingua, concedendo pure ad ele- menti
sloveni limitate responsabilità amministrati- ve. La condivisione
degli obiettivi anticomunisti ed antipartigiani tra le diverse forze collaborazio- niste non poté però superare
le reciproche diffi- denze d’ordine
nazionale, e ciò portò anche a
scontri armati. Più ampi furono i movimenti
di op- posizione all’occupazione germanica
tanto che i nazisti sentirono
il bisogno di adibire all’elimina-
zione su larga
scala
degli antifascisti, in primo luo- go sloveni e croati,
ma anche italiani, una struttu- ra
specifica, la risiera di San Sabba, utilizzata an- che come centro
di raccolta per gli ebrei da de- portare
nei campi di sterminio. Particolarmente
vasta fu la partecipazione al movimento di libera- zione da parte della popolazione slovena, mentre
quella italiana fu frenata dal timore
che il movi- mento
partigiano venisse egemonizzato dagli slo-
veni, le rivendicazioni nazionali dei quali non era-
no accettate dalla maggioranza
della popolazione italiana. Influì anche negativamente l’eco degli ec- cidi
di italiani dell’autunno del 1943 (le cosiddet- te “foibe istriane”) nei territori istriani
ove era atti- vo il movimento di liberazione croato, eccidi per- petrati non solo per motivi etnici e sociali,
ma an- che per colpire in primo luogo la locale classe di- rigente, e che spinsero
gran parte degli italiani della regione a temere per la loro sopravvivenza
nazionale e per la loro stessa incolumità.
Collaborazione antifascista – Distinzioni e divergenze
Nel
corso della seconda guerra mondiale
i rapporti sloveno-italiani giunsero al culmine della loro conflittualità; tuttavia vennero
contestual- mente sviluppandosi anche forme di collaborazio-
ne su
basi antifasciste, in prosecuzione di una pluridecennale unità maturata
nel movimento operaio. Tale collaborazione assurse
al massimo rilievo nei rapporti fra i due partiti comunisti, tra le
formazioni partigiane slovene ed italiane, nei co-
mitati di unità operaia e, fin ad un certo momen- to, anche fra
l’OF e il CLN. Sotto il profilo genera- le, la collaborazione fra i movimenti di liberazione
sloveno ed italiano fu stretta
ed ebbe notevoli svi- luppi.
Nonostante le nuove forme di collaborazione fra i due popoli, i due movimenti di liberazione si distinguevano sensibilmente per genesi, struttura-
zione, consistenza ed influenza
e non superarono le diversità
di obiettivi e di tradizioni politiche. Emersero divergenze fra le dirigenze
dei due par- titi
comunisti come pure fra il CLN giuliano ed i vertici dell’OF, nonostante avessero stipulato alcu- ni importanti accordi. Nella Venezia
Giulia la resi- stenza si rivelò un fenomeno plurinazionale piut- tosto che internazionale, dal momento che en- trambi i movimenti di liberazione, pur rifacendosi
ai valori dell’internazionalismo, risultarono forte- mente condizionati dell’esigenza di difendere i ri- spettivi interessi nazionali. Il movimento di libera- zione sloveno reputò di importanza centrale l’an- nessione alla Jugoslavia di tutti
i territori in cui vi fossero insediamenti storici sloveni, ma ciò non ebbe esclusivamente implicazioni di ordine nazio- nale, bensì – dato il carattere
del movimento – anche implicazioni inerenti
agli obiettivi rivoluzio-
nari che si era preposto. Il possesso di Trieste in-
fatti era considerato di grande importanza, non solo per la sua posizione geo-economica rispetto alla Slovenia, ma anche per la presenza di una forte classe operaia, nonché come base sia per la
difesa del mondo comunista dall’influenza occi-
dentale, sia per un’ulteriore espansione del co-
munismo verso ovest, ed in particolare
verso l’Ita- lia del nord.
Il PCI, a
livello sia locale
che nazionale, fino al-
l’estate del 1944 non accettò l’idea dell’annessio-
ne alla Jugoslavia delle aree mistilingui ovvero a prevalenza italiana, proponendo di rinviare la de-
finizione del problema al dopoguerra. Più tardi in- vece, in una mutata
situazione strategica e dopo che il PCS ebbe assunto il controllo sia delle for- mazioni garibaldine che della federazione triesti- na del PCI, i comunisti
giuliani aderirono
all’impo- stazione dell’OF, mentre in campo nazionale
la li- nea del PCI si
fece più oscillante: le rivendicazioni
jugoslave non vennero mai ufficialmente accolte ma nemmeno respinte,
e Togliatti propose
una di- stinzione tattica fra annessione di Trieste alla Ju- goslavia – di cui non bisogna
parlare – ed occu-
pazione del territorio giuliano
da parte jugoslava, che andava invece favorita
dai comunisti italiani.
Sulla linea del PCI, oltre al sostegno sovietico alle rivendicazioni jugoslave
ed al dibattito interno su- gli
sbocchi da dare alla lotta di liberazione in Ita- lia, influì
anche l’atteggiamento
assunto da buona parte del proletariato italiano di Trieste e
Monfal- cone, che aveva accolto
la soluzione jugoslava
in
chiave internazionalista come integrazione
entro uno stato socialista alle spalle
del quale si ergeva l’Unione Sovietica.
Tale scelta provocò
pesanti conseguenze all’interno
della resistenza italiana, portando tra l’altro all’eccidio delle malghe di Por- zûs,
perpetrato da una formazione partigiana co-
munista nei confronti di partigiani osovani.
Diversa era la posizione
del CLN giuliano
(dal quale alla fine
del 1944 uscirono i comunisti, a differenza di quanto accadde a
Gorizia); esso rap- presentava i sentimenti della popolazione italiana di orientamento antifascista che desiderava il mantenimento della sovranità
italiana sulla regio-
ne. Il CLN tendeva inoltre a presentarsi agli anglo-
americani come rappresentante della maggioran-
za della popolazione italiana, anche al fine di ot- tenere l’appoggio per la definizione dei confini. Il CLN e l’OF esprimevano orientamenti in materia di
confini opposti e incompatibili, perciò quando il
problema della futura frontiera venne
posto in primo piano, una loro collaborazione
strategica divenne impossibile. Sul piano tattico le ultime possibilità di accordo in vista dell’insurrezione fi- nale svanirono di fronte all’impossibilità di rag-
giungere un’intesa su chi avrebbe
avuto il control- lo
politico di Trieste dopo la cacciata dei tedeschi. Fu così che al termine della guerra
ciascuna com- ponente della Venezia Giulia attese i propri libera- tori, la Quarta armata jugoslava e il suo nono cor- po
operante in Slovenia
o l’Ottava armata britan- nica, e scorse in quelli
dell’altra l’invasore.
Liberazione, occupazione
jugoslava, “foibe” e
deportazioni
Alla
fine di aprile CLN e Unità operaia organiz- zarono a Trieste due insurrezioni parallele e con- correnziali, ma ad ogni modo la cacciata dei tede- schi dalla Venezia Giulia avvenne
principalmente per opera delle grandi unità militari jugoslave e in parte di quelle alleate
che finirono per sovrappor-
re le loro aree operative
in maniera non concor-
data: il problema della transizione fra guerra e do- poguerra divenne così una questione che travali-
cava i rapporti fra italiani e sloveni della Venezia Giulia, come pure le relazioni fra l’Italia e la Ju- goslavia, per diventare un nodo, seppur
minore, della politica
europea del tempo.
L’estensione del controllo jugoslavo alle aree
già
precedentemente liberate dal movimento par- tigiano fino a tutto il territorio
della Venezia Giulia fu salutata con grande entusiasmo dalla maggio- ranza
degli sloveni e dagli italiani
favorevoli alla Jugoslavia. Per gli sloveni
si trattò di una duplice liberazione, dagli occupatori tedeschi
e dallo Sta- to italiano. Al contrario, i giuliani
favorevoli all’Ita- lia considerarono l’occupazione jugoslava come il momento più buio della loro storia,
anche perché essa si
accompagnò ad un’ondata di violenza
che trovò espressione nell’arresto di molte migliaia
di
persone, parte delle quali venne in più riprese ri- lasciata – in larga
maggioranza italiani,
ma anche sloveni contrari
al progetto politico
comunista ju- goslavo –, in centinaia di esecuzioni sommarie immediate – le cui vittime vennero
in genere get- tate
nelle “foibe” – e nella deportazione
di
un gran numero di militari
e civili, parte dei quali pe- rì
di stenti o venne liquidata
nel corso dei trasferi-
menti, nelle carceri e nei campi di prigionia (fra i quali va ricordato quello
di Borovnica) creati in di- verse
zone della Jugoslavia.
Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra e appaiono in larga misura
il frutto di un progetto
politico preordinato, in cui
confluivano diverse spinte: l’impegno
ad eliminare soggetti
e strutture ricollegabili (anche al di là
delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo Stato italiano,
assie- me ad un disegno di epurazione preventiva di op- positori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell’avvento del regime comunista, e dell’annes-
sione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugosla-
vo. L’impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasforman-
do in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l’animosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri partigiani.
Periodo 1945 -1956
La divisione della Venezia Giulia nella logica della
guerra fredda
L’area della Venezia Giulia
e delle Valli del Na-
tisone (Slavia Veneta) che vede l’incontrarsi dei popoli italiano
e sloveno, era stata in passato
già frammentata, mai però nella misura in cui lo fu nel primo decennio
del dopoguerra. Dal maggio
1945
al settembre 1947 vi operarono infatti due amministrazioni militari anglo-americane (con se-
de a
Trieste e Udine)
e il governo militare jugosla- vo. La Venezia
Giulia venne divisa in due zone di occupazione: la Zona A amministrata da un go- verno militare alleato (Gma) e la Zona B ammini- strata da un governo militare
jugoslavo (Vuja), mentre le Valli del Natisone
ricadevano sotto la giurisdizione del Gma con sede a Udine.
Dopo il 1945 la situazione
internazionale pro- cedette rapidamente verso la contrapposizione globale fra Est e Ovest e,
anche se nei rapporti di- plomatici fra le grandi potenze
la nuova logica si affermò
solo gradualmente, il clima di scontro fra civiltà informò assai presto gli atteggiamenti
poli- tici delle popolazioni viventi
al confine tra Italia e Jugoslavia. Inoltre, mentre nel primo dopoguerra
i rapporti di forza a livello
europeo avevano fatto sì che la controversia di frontiera italo-jugoslava si concentrasse sul margine orientale
dei territori in discussione, nel secondo dopoguerra il rovescia-
mento degli equilibri di potenza fra i due Stati spostò il dibattito sui bordi occidentali della re-
gione: il nuovo confine
premiò così il contributo della Jugoslavia, aggredita dall’Italia, alla vittoria alleata e realizzò buona parte delle aspettative che avevano animato la lotta degli
sloveni e dei croati della Venezia Giulia contro
il fascismo e per
l’emancipazione nazionale. Il tentativo di far coin- cidere limiti etnici e confini di stato si rivelò
tutta- via impossibile, non solo per il prevalere
delle po- litiche di potenza,
ma per le caratteristiche stesse del popolamento nella
regione Giulia e per il di- verso modo d’intendere l’appartenenza nazionale dei residenti nell’area: ancora una volta quindi, com’era già avvenuto
dopo il 1918 e com’è del re-
sto tipico dell’età dei nazionalismi, il coronamen- to (seppur nel caso degli sloveni
non integrale) delle
aspirazioni nazionali di un popolo,
si risolse di fatto nella penalizzazione di quelle dell'altro.
Dopo l’entrata
in vigore del Trattato di Pace – che
istituiva quale soluzione di compromesso il Territorio Libero di Trieste (TLT) – le relazioni italo- jugoslave
vennero assorbite nella logica della guerra fredda. Il momento
culminante di tale fase
si ebbe nel 1948, quando l’imminenza delle ele- zioni politiche
italiane indusse i governi occiden- tali ad emanare la Nota Tripartita del 20 marzo in favore
della restituzione all’Italia dell’intero TLT.
Dissidio URSS-Jugoslavia – Superamento del TLT
A seguito
del dissidio con l’URSS del 1948 la Jugoslavia non aderì più a blocchi politico-militari
e le potenze occidentali si mostrarono disposte
a ripagarne la neutralità con concessioni economi-
che e politiche, pur rimanendo essa retta da un regime totalitario. Sempre
su sollecitazione delle potenze atlantiche, vista l’inconcludenza dei ne-
goziati bilaterali sulla sorte del TLT, superata la cri- si originata dalla Nota Bipartita
dell’8
ottobre
1953, si pervenne il 5 ottobre 1954 alla stipula del Memorandum
di Londra.
L’assetto imposto dal Trattato di Pace e suc- cessivamente completato dal Memorandum riuscì complessivamente vantaggioso
per la Jugoslavia, che ottenne
la maggior parte dei territori
rivendi- cati ad eccezione del Goriziano, del Monfalconese e della Zona A del mai realizzato Territorio Libero
di Trieste, che pur vedevano la presenza di slove-
ni. Le Valli del Natisone, la Val Canale e la Val di Resia, sebbene
rivendicate dalla Jugoslavia, non
costituirono oggetto di trattative.
Diversa fu la percezione
di tale esito da parte
delle popolazioni interessate. Mentre la maggior parte
dell’opinione pubblica italiana
salutò con entusiasmo il ritorno
all’Italia di Trieste, che
era di- venuta il simbolo
della lunga contesa
diplomatica per il nuovo
confine
italo-jugoslavo, gli italiani
della Venezia Giulia vissero
la perdita dell’Istria
come
un evento traumatico, che sedimentò nella memoria collettiva. Da parte slovena, la soddisfa-
zione per il recupero delle vaste aree rurali del Carso e dell’alto
Isonzo, si accompagnò
alla delu- sione per il mancato accoglimento delle storiche
rivendicazioni sui centri urbani di Gorizia e Trieste, in parte compensato dall’annessione della fascia costiera del Capodistriano – che vedeva una con- sistente presenza italiana – che fornì alla Slovenia
lo sbocco al mare.
A conclusione della vertenza,
mentre tutta la popolazione croata della Venezia Giulia si ritrovò nella repubblica
di Croazia facente parte della Fe- derazione jugoslava, rimasero comunità slovene
in Italia, nelle province di Trieste, Gorizia ed Udi- ne, e
comunità italiane in Jugoslavia, anche se al-
l’atto della stipula del Memorandum d’Intesa que- ste ultime erano già state falcidiate dall’esodo dai territori assegnati alla Croazia in forza del Trattato di Pace.
Nelle zone in cui dopo il 1947 venne ripristi- nata l’amministrazione italiana, il ritorno alla nor- malità
fu ostacolato dal permanere di atteggia- menti nazionalistici, anche come conseguenza
dei rancori suscitati
dall’occupazione
jugoslava del
1945. Il reinserimento del Goriziano nella compa- gine statuale
italiana fu accompagnato da nume- rosi episodi di violenza
contro gli sloveni e contro le persone
favorevoli alla Jugoslavia. Le autorità italiane mostrarono in genere diffidenza
verso gli sloveni e, pur nel rispetto
dei loro diritti individua- li, non favorirono lo sviluppo nazionale della co- munità slovena, e
in alcuni casi promossero, anzi, tentativi di assimilazione strisciante. La divisione della vecchia provincia colpì gravemente
il Gori- ziano, perché l’entroterra montano del bacino dell’Isonzo restò privo del suo sbocco
nella pianu- ra, e in particolare
la popolazione slovena,
che ri- mase separata dai propri
connazionali. Ciò rese
necessaria la costruzione da parte slovena di No-
va Gorica, che nel nuovo clima instauratosi nei decenni seguenti
venne allacciando, anche
se con molte difficoltà, rapporti con il centro urbano ri- masto
in Italia, la cui ripresa,
lenta e faticosa,
si delineò appena sul finire degli anni Cinquanta.
Più precaria
si rivelò la posizione degli sloveni
abitanti nelle Valli del Natisone e del Resiano
e nella Val Canale, che non furono mai riconosciuti come minoranza nazionale e rimasero quindi pri- vi dell’insegnamento nella madre lingua
e del di- ritto di usarla nei rapporti con le autorità. In tali zone
si registrò il rifiorire,
a partire dagli ultimi an-
ni di guerra, di forme di coscienza nazionale slo- vena, ma la comparsa
di orientamenti politici
filo- jugoslavi presso popolazioni che avevano sempre manifestato lealismo
verso lo Stato italiano, ven- ne
prevalentemente giudicata da parte italiana, complice anche il clima della guerra fredda, frutto non di un’evoluzione autonoma
ma di agitazione
politica proveniente da oltre confine.
I loro asser- tori furono fatti oggetto di intimidazioni
e arresti, e
in alcuni casi di
atti di violenza, da parte di grup- pi estremisti e formazioni paramilitari. Anche il clero sloveno
incontrò difficoltà sia con le autorità civili sia con quelle religiose diocesane nell’affer-
mare il proprio
ruolo di riferimento per l’identità degli sloveni
della Slavia Veneta a partire dall’e- sercizio dei suoi compiti
pastorali in lingua slove-
na. Vi è certo stato in tali zone un persistente ri- tardo da parte italiana
nell’attuazione di una poli- tica
di tutela corrispondente allo spirito della Co-
stituzione democratica. Su tale ritardo
vennero a pesare l’inasprirsi della situazione internazionale
e le corrispondenti contrapposizioni politiche. Da ciò derivarono pure ritardi nell’istituzione della re-
gione Friuli-Venezia Giulia, la cui autonomia avrebbe comunque consentito, secondo il dise- gno
della Costituente, una maggiore attenzione
alle regioni minoritarie.
Il difficile
approdo alla
normalità democratica
Nelle Zone A e B della Venezia Giulia e dal
1947 del TLT, entrambi
i governi militari
operarono come amministrazioni provvisorie, tuttavia differi-
vano fra loro per alcuni aspetti sostanziali. Mentre
infatti il Gma costituiva soltanto
un’autorità di oc- cupazione, la Vuja rappresentava al tempo stesso anche lo Stato che rivendicava a sé l’area
in que- stione, e ciò ne condizionò l’opera. Gli angloame-
ricani introdussero nella Zona A ordinamenti ispi- rati ai princìpi liberal-democratici, e, pur mante- nendo sempre il completo
controllo militare e po- litico
nella Zona A, cercarono sulle prime di coin- volgere nell’amministrazione civile tutte le corren- ti politiche. Poi però, per il diniego
della compo- nente filo-jugoslava e anche in virtù del peso cre-
scente della guerra fredda – che fino al 1948 tro- vò nell’area
giuliana uno dei suoi luoghi di frizio- ne
– si servirono soltanto della collaborazione delle forze filoitaliane e anticomuniste. Il Gma adottò comunque provvedimenti volti ad assicu- rare alla popolazione slovena
i suoi diritti nell’uso pubblico della lingua nazionale
ed in campo sco- lastico, cercando
però nel contempo di ostacolare i rapporti della comunità slovena
con la Slovenia. Inoltre, l’attivazione – sia pure tardiva – degli isti- tuti
di
autogoverno locale,
permise agli sloveni con le libere elezioni
del 1949 e 1952, di elegge- re i propri rappresentanti dopo più di due decen- ni
di esclusione dalla vita pubblica.
In quegli anni fece ritorno
a Trieste e
a Gorizia una parte degli sloveni fuoriusciti nel periodo
fra le due guerre, in particolare gli appartenenti ai ceti intellettuali, i quali assunsero importanti funzioni in campo cul- turale e politico.
Fino al 1954 la priorità attribuita alla questio- ne
dell’appartenenza statuale
della zona, som- mandosi alle tensioni della guerra fredda, deter-
minò una polarizzazione della lotta politica che rese più difficile l’avvio della nuova vita democra- tica. Lo spartiacque fra il blocco filo-italiano e quello filo-jugoslavo non era
né esclusivamente nazionale né solo di classe o ideologico, bensì il risultato di un intreccio
di tali elementi. Fino
al
1947 all’interno dei due blocchi
le distinzioni po- litiche si attenuarono e trovarono ampio spazio le pulsioni
nazionalistiche. Più tardi le articolazioni divennero più marcate e, anche se il peso dello scontro nazionale rimase assai forte, le compo- nenti democratiche filo-italiane, che assunsero
la guida politica della zona, badarono in genere a di- stinguere la loro azione
da quella delle forze di estrema destra.
In modo analogo si manifestaro- no pubblicamente anche
le distinzioni ideologi- che, prima offuscate, fra gli sloveni,
i quali forma- rono gruppi e partiti ostili alle nuove autorità
ju- goslave. Presero
corpo anche tendenze
indipen- dentiste, che videro una certa convergenza di ele- menti italiani e sloveni attorno all’idea
dell’entra- ta in vigore dello statuto definitivo del TLT.
Oltre ai rapporti quotidiani fra la gente che vi- veva
sullo stesso territorio e che non furono mai interrotti, si ebbe fino alla risoluzione del Comin- form
una stretta collaborazione fra gli sloveni e numerosi italiani della regione, legata soprattutto all’appartenenza di classe
e cementata dalla
co- mune esperienza della lotta partigiana, che in de- terminati ambienti era valsa a infrangere alcuni miti, come quello della
naturale avversione fra le due etnie. La scelta in favore dell’annessione alla Jugoslavia, come stato nel quale si veniva
edifi- cando il comunismo, compiuta
allora dalla mag- gioranza del proletariato locale di lingua italiana,
soprattutto nella Zona A, fece sì che fino alla frat-
tura tra la Jugoslavia e
il Cominform (1948) a lun- go si mantenesse
la solidarietà fra comunisti ita- liani e sloveni, nonostante le crescenti divergenze sul modo d’intendere l’internazionalismo e sulla concezione del partito, oltre che su questioni chiave come quella dell’appartenenza statale del- la Venezia Giulia. Stretta fu pure la collaborazione fra il PCI e il PCJ (PCS),
consolidata dalla lotta co- mune
contro l’invasore e il fascismo, nonostante la diversità
di posizioni su alcune
questioni. Le tensioni esplosero all’atto della risoluzione del Cominform, sostenuta
dalla maggioranza dei co- munisti italiani, sicché si ebbe per parecchio tem- po non solo
l’interruzione di ogni contatto ma an-
che una vera e propria ostilità tra “cominformisti” e “titini”. A seguito
di ciò in Jugoslavia numerosi comunisti italiani, sia fra quelli
residenti in Istria che fra quelli accorsi
in Jugoslavia ad “edificare
il socialismo”, subirono il carcere, la
deportazione e l’esilio. Si creò pure una frattura tra gli sloveni,
es- sendosi schierata a favore
dell’Unione Sovietica e contro
la Jugoslavia anche la maggioranza degli sloveni della Zona A orientati a sinistra. Da allora
per lungo tempo gli sloveni
furono divisi in tre gruppi contrapposti e spesso ostili:
i democratici, i “cominformisti”
ed i “titini”.
L’esodo dall’Istria
Nonostante la Zona B della Venezia Giulia
si estendesse su una vasta area compresa fra il con-
fine di Rapallo e la linea Morgan,
l’area ammini- strata dalle autorità
slovene registrava
una vasta presenza italiana solo nella fascia costiera, mentre la popolazione dell’entroterra era in larga preva- lenza slovena. Nel 1947 tale area costiera concor- se, assieme al Buiese
amministrato dalle autorità
croate, alla formazione della Zona B del TLT. Qui la Vuja, che aveva trasferito parte delle proprie com- petenze
agli organi civili del potere popolare, cer- cò di
consolidare le strutture
tipiche di un regime comunista, irrispettoso del diritto delle
persone. Le autorità jugoslave, in contrasto con il mandato a provvedere alla sola amministrazione provviso- ria della zona occupata, senza pregiudizio
della sua destinazione statuale, cercarono di forzare l’annessione con una politica di fatti compiuti.
Così,
oltre a provvedere al riconoscimento dei di- ritti nazionali degli sloveni, fino ad allora negati,
tentarono di costringere gli italiani
ad aderire alla soluzione jugoslava, facendo anche uso dell’inti-
midazione e della violenza.
Nel contempo,
le basi economiche del gruppo nazionale italiano, fino ad allora egemone, venne-
ro compromesse sia dalla nuova legislazione che
dall’interruzione dei rapporti fra le due zone, men- tre le tradizionali gerarchie sociali vennero rivolu- zionate, anche a seguito
della progressiva scom-
parsa della classe dirigente
italiana. Si mirò inoltre ad eliminare i naturali
punti di riferimento cultura- le delle comunità italiane: così, a ben poco valse l’attivazione di nuove istituzioni culturali – come l’emittente radiofonica in lingua italiana – stretta- mente controllate dal regime,
di
fronte alla pro- gressiva
espulsione degli insegnanti e – dopo
il
1948 – al ridimensionamento del sistema scolasti-
co in lingua italiana, nonché all’orientamento complessivo dell’insegnamento verso l’attenuazio- ne dei legami del gruppo nazionale
italiano con l’I- talia e verso la denigrazione
dell’Italia. Allo stesso
modo, la persecuzione religiosa del regime assun-
se nei confronti
del clero italiano, che costituiva un elemento chiave per la difesa dell’identità
nazio- nale, un’oggettiva valenza snazionalizzatrice.
Se nei comportamenti anti-italiani di parte de-
gli attivisti locali, che ribaltavano sull’elemento ita- liano
l’animosità per i trascorsi del fascismo istria- no, è palese sin dall’immediato
dopoguerra l’in- tento di liberarsi degli italiani in quanto ritenuti
ir- riducibili alle istanze del nuovo potere,
allo stato attuale delle conoscenze mancano
riscontri certi alle testimonianze – anche
autorevoli di parte ju- goslava – sull’esistenza di
un piano preordinato di
espulsione da parte del governo
jugoslavo, che pare essersi
delineato compiutamente solo dopo la crisi nei rapporti con il Cominform del 1948; questo
spinse i comunisti italiani, che vivevano nella zona e che pur avevano
inizialmente colla- borato anche se con crescenti riserve
con le auto- rità jugoslave, a schierarsi nella loro
stragrande maggioranza contro
il partito di Tito. Ciò condus- se le autorità
popolari ad abbandonare la linea della
“fratellanza italo-slava”, che consentiva il mantenimento
nello Stato socialista jugoslavo
di una componente italiana politicamente e social- mente epurata al fine di renderla conformista ri- spetto agli orientamenti
ideologici e alla politica nazionale del regime. Da
parte jugoslava, pertan- to, si vide con crescente favore l’abbandono da parte degli italiani
della loro terra d’origine, men- tre il trattamento riservato al gruppo nazionale
italiano subì più marcatamente le oscillazioni dei negoziati sulla sorte del TLT. Alla violenza, che si manifestò nuovamente al tempo delle elezioni
del 1950 e della crisi triestina del 1953, e agli al- lontanamenti forzati, si intrecciarono così provve- dimenti miranti
a consolidare le barriere fra Zona
A e Zona B. La composizione etnica della Zona B
subì inoltre rimaneggiamenti anche a causa
del- l’immissione di jugoslavi in città che erano state quasi esclusivamente italiane.
In conseguenza di
tutto ciò, dal distretto di Ca-
podistria si registrò un flusso costante
anche se numericamente limitato,
di partenze e di fughe, che divenne particolarmente considerevole agli inizi degli anni Cinquanta, fino a coinvolgere l’in- tero gruppo nazionale italiano dopo la stipula
del Memorandum di Londra,
quando per gli italiani venne meno la speranza che la loro situazione potesse mutare. Infatti,
nonostante gli impegni assunti con il Memorandum, l’atteggiamento del- le autorità nella Zona B non cambiò, mentre il medesimo atto concedeva
alla popolazione la possibilità di optare per la cittadinanza italiana entro un tempo limitato. Complessivamente nel corso del dopoguerra l’esodo
dai territori istriani
soggetti oggi alla sovranità
slovena coinvolse più di 27.000 persone
– vale a dire la quasi totalità
della popolazione italiana
ivi residente – oltre ad alcune migliaia di sloveni,
che vennero ad aggiun-
gersi alla grande massa di
esuli, in larghissima maggioranza italiani (le cui stime più recenti van-
no dalle 200 mila alle 300 mila unità), provenien-
ti dalle aree dell’Istria e della Dalmazia
oggi ap- partenenti alla Croazia.
Gli italiani rimasti (l’8% della popolazione complessiva) furono in mag- gioranza operai
e contadini, specie quelli più an- ziani, cui si aggiunsero alcuni immigrati
politici del dopoguerra ed alcuni intellettuali di sinistra.
Fra le ragioni dell’esodo vanno tenute soprat- tutto presenti l’oppressione esercitata
da un regi-
me la cui natura totalitaria impediva anche la li- bera espressione dell’identità nazionale, il rigetto dei mutamenti nell’egemonia nazionale e sociale
nell’area, nonché la ripulsa nei confronti delle
ra- dicali trasformazioni introdotte nell’economia. L’e- sistenza di
uno Stato nazionale italiano democra-
tico ed attiguo ai confini,
più che l’azione propa- gandistica di agenzie locali filo-italiane, esplicatasi anche in assenza di
sollecitazioni del governo ita- liano,
costituì un fattore
oggettivo di attrazione per popolazioni perseguitate
ed impaurite, no- nostante il governo italiano
si fosse a più riprese adoperato per fermare, o quantomeno contenere, l’esodo. A ciò si aggiunse il deteriorarsi delle con-
dizioni di vita, tipico dei sistemi socialisti, ma le- gato pure all’interruzione coatta dei rapporti con Trieste, che innescarono il timore per gli italiani
dell’Istria di rimanere
definitivamente dalla parte
sbagliata della “cortina di ferro”. In definitiva, le comunità italiane furono
condotte a riconoscere l’impossibilità di mantenere
la loro identità nazio- nale – intesa come complesso di modi di vivere e di sentire, ben oltre la sola dimensione politico- ideologica – nelle condizioni concretamente of- ferte dallo Stato jugoslavo
e la loro decisione ven- ne
vissuta come una scelta di libertà.
In
una prospettiva più ampia, l’esodo degli ita- liani dall’Istria si configura come aspetto particola-
re del processo di formazione degli Stati naziona- li in territori etnicamente compositi, che condusse alla dissoluzione della realtà plurilinguistica e multiculturale esistente nell’Europa centro-orien-
tale e sud-orientale. Il fatto che gli italiani dovet- tero abbandonare uno Stato federale
fondato su di un’ideologia internazionalista, mostra come nell’ambito stesso di
sistemi comunisti le spinte e distanze nazionali continuassero a condizionare massicciamente le dinamiche politiche.
La
stipula del Memorandum di Londra non ri- solse
tutti i problemi
bilaterali, a cominciare da quelli relativi al trattamento delle minoranze, ma segnò nel complesso la fine di uno dei periodi più tesi
nei rapporti italo-sloveni e l’inizio di un’epoca nuova, caratterizzata dal graduale avvio della co- operazione di confine sulla base degli accordi di Roma del 1955 e di Udine
nel 1962 e dallo
svi- luppo progressivo dei rapporti culturali ed econo- mici. Nonostante
i loro contrasti, già a partire dal- la stipula del Trattato di Pace, i due paesi, l’Italia
e la Jugoslavia, avevano avviato rapporti sempre
più stretti, tali da rendere a partire dalla fine degli an-
ni Sessanta il loro confine
il più aperto fra due Paesi europei a diverso ordinamento sociale. L’ap-
porto delle due minoranze
fu a tale proposito del massimo rilievo.
Tutto ciò concorse,
dopo decen- ni di accesi contrasti, ad avviare sia pure fra tem- poranee ricadute, i due popoli
verso una più fe- conda
collaborazione.
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