venerdì 3 febbraio 2012

I RAPPORTI ITALO-SLOVENI TRA IL 1880 ED IL 1956 RELAZIONE DELLA COMMISSIONE ITALO SLOVENA A CURA DELL'A.N.P.I. DI GORIZIA


Buoansera a tutti,
speriamo che le forze politiche, pure a Spoleto, non si dimentichino di ricordare ciò che successe tra il Friuli-Venezia- Giulia, Istria, Dalmazia, Sloveniae Jugoslavia.
E’ vero che gli sloveni obbligarono gli istriani e i giulio-dalmati,  di origine italiana, a prendere la via dell’esilio, ma le colpe sono da dividere  equamente con gli italiani, purtroppo  “fascisti”.
Non dimentichiamoci che l’Italia aveva occupato quelle terre  solo perché avevamo vinto la prima  guerra mondiale;  quelle popolazioni si sentivano già serbi , croati, slovene, jugoslavi, ma erano sottomessi al governo austriaco.
Pubblico il lavoro della  Commissione storico-culturale italo-slovena che n el 1993 i Ministri degli esteri dell’Italia e della Slovenia istituirono unacon lo scopo di fare il punto sui risultati della ricerca storica realizzata nei due Paesi sul tema dei reciproci rapporti
E’ doveroso ringraziare oltre alla Commissione, Giovanni Simoncelli dell’A.N.P.I. di Perugia che c'ha inviato il testo e la sezione di Gorizia, che ne ha riproposto la diffusione e il Presidente Gian Paolo Loreti che vuole dire la verità su quel periodo storico che ha vissuto.  
Alessandro Ciamarra
 

 I RAPPORTI ITALO-SLOVENI TRA IL 1880 ED IL 1956 RELAZIONE DELLA COMMISSIONE ITALO SLOVENA
.N el 1993 i Ministri degli esteri dell’Italia e della Slovenia istituirono una Commissione storico- culturale italo-slovena con lo scopo di fare il punto sui risultati della ricerca storica realizzata nei
due Paesi sul tema dei reciproci rapporti.

La Commissione era formata da parte italiana  da Giorgio Conetti, docente di diritto internazionale e preside della facoltà di giurisprudenza di Como che la presiedeva, e dagli storici Angelo Ara (Università di Pavia), Marina Cattaruzza (Università di Berna), Fulvio Salimbeni (Università  di  Udine),  Raoul  Pupo  (Università  di  Trieste), Maria  Paola  Pagnini,  ordinario  di geografia dell’Università di Trieste e dal sen. Lucio Toth, dellAssociazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia. La parte slovena, presieduta dalla dott.ssa Milica Kacin Wohinz era composta dagli storici France Dolinar,  Branko Marusˇicˇ, Boris Mlakar,  Nevenka Troha, Andrej Vovko e Aleksander Vuga. Inizialmente fecero parte della Commissione anche il costituzionalista Sergio Bartole, lo scrittore Fulvio Tomizza, lo storico Elio Apih e Boris Gombacˇ che, per vari motivi, non poterono proseguire nell’incarico.

Dopo 7 anni di lavoro e ripetuti incontri la relazione conclusiva della Commissione fu approvata  all’unanimità   dai  suoi 14  componenti  il  25  luglio  2000  e consegnata  ai  rispettivi Ministeri degli esteri, ma inspiegabilmente per 8 mesi non fu resa pubblica.

Benché la pubblicazione fosse stata sollecitata da più parti, tra le quali lANPI, e da un voto unanime della Camera dei Deputati, la relazione fu resa pubblica nel testo integrale soltanto il 4 aprile 2001 dal quotidiano “Il Piccolo” e lo stesso giorno anche dal Ministero degli esteri.

Tuttavia questo documento, salvo rare eccezioni, non fu ripreso ed adeguatamente  diffuso benché  costituisca una  base  certa  per  una  riflessione  sulle  tormentate  vicende  del  confine orientale e dei popoli che in quest’area convivono.

LA.N.P.I.  lo  ripropone  a  chi  vorrà  approfondire  la  materia  ed  in  particolare  a  quanti svolgono la delicata ed essenziale funzione di sollecitarne la conoscenza alle giovani generazioni nelle scuole, ritenendo con ciò di recare un contributo per lo sviluppo di un dibattito  finalmente sottratto a visioni unilaterali  e di parte.



Associazione Nazionale  Partigiani  d’Italia
Comitato  Provinciale  di Gorizia


Avvertenza: il  documento  approvato  dalla  Commissione è privo  di  titolazioni  ad  eccezione di quelle che si riferiscono ai quattro periodi presi in esame.
I titoli che appaiono nel testo sono quindi dovuti a noi al solo scopo di facilitarne la lettura.



I   RAPPORTI ITALO-SLOVENI





Periodo 1880 -1918

Il rapporto italo-sloveno nella regione adriati- ca ha la sua origine nella fase di crisi successiva al crollo dell’impero  romano, quando da una parte sul tronco della romanità si sviluppa l’italianità e dall’altra si verifica l’insediamento della popola- zione slovena. Di questo secolare rapporto di vici- nanza e di convivenza s’intende qui trattare il pe- riodo, che si apre intorno al 1880, segnato dal sorgere di un rapporto conflittuale e di contrasto nazionale italo-sloveno. Questo conflitto si svilup- pa all’interno di una realtà politico-statale, la mo- narchia asburgica, della quale le diverse zone co- stituenti  il Litorale austriaco erano entrate a far parte attraverso un secolare processo, iniziato nel- la seconda metà del XIV secolo e conclusosi, con l’Istria veneziana, nel 1797. La plurinazionale mo- narchia asburgica nella seconda metà del XIX se- colo appare incapace di dare vita a un sistema politico  che rispecchiasse compiutamente  nelle strutture  statali la multinazionalità  della società, ed è scossa pertanto da una questione delle na- zionalità che essa non sarà in grado di risolvere. All’interno di questa Nationalitätenfrage asburgica si colloca il contrasto italo-sloveno, sul quale si ri- flettono anche i processi di modernizzazione e di trasformazione economica, che toccano tutta l’Eu- ropa centrale e la stessa area adriatica. Il rapporto italo-sloveno appare così caratterizzato, secondo un modello che si ritrova anche in altri casi della società asburgica del tempo, da un contrasto tra coloro, gli italiani, che cercano di difendere uno stato di possesso (Besitzstand) politico-nazionale ed economico-sociale e coloro, gli sloveni, che tentano invece di modificare o di ribaltare la si- tuazione esistente. Il problema è reso ancora più complesso dall’indubbio richiamo culturale ed emotivo, anche se non sempre politico, che l’av- venuta proclamazione del Regno d’Italia e forse più ancora il passaggio a questo stato dei vicini territori del Veneto e del Friuli esercitano sulle po- polazioni  italiane dAustria. Allo sguardo che gli italiani rivolgono oltre le frontiere della monarchia si contrappone la volontà  slovena di rompere  i confini politico-amministrativi, che in Austria li di- vidono tra diversi Kronländer (oltre ai tre del Lito- rale, la Carniola, la Carinzia e la Stiria), limitando- ne i rapporti reciproci e la collaborazione politico- nazionale. L’unione del Veneto al Regno d’Italia aveva determinato  anche la nascita di una que- stione che tocca direttamente le relazioni italo- slovene: con il 1866 la Valle del Natisone, la Sla- via veneta, entra a far parte dello stato italiano, la cui politica verso la popolazione slovena esprime immediatamente  la differenza tra un vecchio sta-


to regionale, la Repubblica di Venezia, e il nuovo stato nazionale. Il Regno d’Italia segue una linea di cancellazione del particolarismo linguistico, che ha le sue radici in una volontà  uniformizzatrice che non tiene in alcun conto neppure l’atteggia- mento lealistico della popolazione che è oggetto di queste misure.

L’insorgere  delle questioni nazionali nell’impero Austro-ungarico

Intorno all’anno 1880 gli sloveni si erano or- mai dotati di basi sufficientemente solide per un’autonoma  vita politica ed economica in tutte le unità politico-amministrative  austriache nelle quali essi vivevano.
Anche nel Litorale austriaco il movimento po- litico  degli sloveni del Goriziano, del Triestino  e dell’Istria costituì parte integrante del movimento politico degli sloveni nel loro complesso.
Viene così a diminuire, per poi cessare quasi completamente nei decenni successivi, l’assimila- zione della popolazione slovena (e anche croata) trasferitasi nei centri cittadini e in particolare a Trieste. La più viva coscienza politica e nazionale e la maggiore solidità economica sono alla base di questo fenomeno che allarma le élites italiane, dà vita a una politica spesso angusta di difesa nazio- nale, che contrassegnerà la storia della regione si- no al 1915, e contribuisce a rendere più teso il rapporto tra i due gruppi nazionali, anche a causa delle contrastanti aspirazioni slovene e italiane a una diversa delimitazione dei rispettivi territori nazionali.
In tutte le tre componenti territoriali del Lito- rale austriaco (Trieste, Contea di Gorizia e di Gra- disca, Istria) sloveni e italiani convivevano gli uni accanto agli altri. Nel Goriziano la delimitazione nazionale appariva più netta, con una separazio- ne longitudinale  Occidente-Oriente, etnicamente mista era solo la città di Gorizia, dove il numero degli sloveni era però crescente, tanto da far rite- nere ad autori politici sloveni alla vigilia del 1915 che il raggiungimento di una maggioranza slove- na nella città isontina fosse ormai imminente. Trieste era a maggioranza italiana, ma il suo cir- condario era sloveno. Anche in questo caso la po- polazione slovena appariva in ascesa. In Istria gli sloveni erano presenti nelle zone settentrionali, per la precisione nel circondario delle cittadine costiere a prevalenza italiana. In tutta l’Istria il mo- vimento politico-nazionale degli sloveni si saldava con quello croato, rendendo talora difficile una trattazione distinta delle due componenti della realtà slavo-meridionale della penisola. Il caratte- re peculiare degli insediamenti italiano e sloveno


nel Litorale è rappresentato dalla fisionomia pre- valentemente urbana di quello italiano e eminen- temente rurale di quello sloveno. Questa distin- zione non va però assolutizzata, non devono es- sere dimenticati  gli insediamenti rurali italiani in Istria e in quella parte del Goriziano detta allora Friuli  Orientale e quelli  urbani sloveni oltre a tutto in espansione, come si è g detto a Trie- ste e a Gorizia.
Ma anche se una separazione troppo marcata tra realtà urbana e rurale va evitata, il rapporto cit- tà-campagna rappresenta effettivamente un mo- mento fondamentale della lotta politica nel Lito- rale, determinando anche un intersecarsi di moti- vi nazionali e sociali nel contrasto italo-sloveno, che ne renderà più difficile una composizione. Il nodo del rapporto tra città e campagna sta anche alla base di un dibattito politico e storiografico tuttora in corso sull’autentica fisionomia naziona- le della regione Giulia. Da parte slovena si affer- ma l’appartenenza delle città alla campagna, sia perché nelle aree rurali si sarebbe conservata in- tatta, non alterata dal sovrapporsi di processi cul- turali e sociali, l’identità originale di un territorio, sia perché il volto nazionale delle città sarebbe la conseguenza di processi di assimilazione che hanno impoverito  la nazione slovena. La perdita dell’identità nazionale attraverso l’assimilazione è quindi vissuta dagli sloveni, ancora decenni dopo, come un’esperienza dolorosa e drammatica, che non deve ripetersi. Da parte italiana si replica con il richiamo al principio di appartenenza nazionale come frutto di una scelta culturale e morale libe- ramente compiuta e non di un’origine etnico-lin- guistica.
Tornando al nesso città-campagna, secondo l’interpretazione italiana è invece la tradizione cul- turale e civile delle città che dà la propria impron- ta alla fisionomia e al volto di un territorio. Da que- sta differenza di impostazione deriveranno anche i successivi contrasti sul concetto di confine etnico e sul significato degli stessi dati statistici sulla nazio- nalità delle popolazioni in aree di frontiera, altera- ti a parere degli sloveni dall’esistenza di pol- moni urbani prevalentemente italiani.

Nascita, crescita e scontro tra patriottismi

Benché la questione nazionale all’interno del- la monarchia asburgica presenti alcuni denomina- tori comuni, le condizioni conflittuali nelle singole zone e quindi  anche nel Litorale presentano pe- culiarità specifiche. La rapida crescita del movi- mento politico  ed economico sloveno e l’espan- sione demografica degli sloveni nelle città sono ri- condotte da parte italiana anche all’azione del- l’autorità governativa che avrebbe attuato una po- litica di sostegno all’elemento  sloveno (ritenuto indubbiamente  più leale di quello italiano, come risulta da dichiarazioni esplicite di autorità austria-


che), per contrastare l’autonomismo  e il naziona- lismo italiano. L’attribuzione di una fisionomia esclusivamente artificiale all’espansione slovena non tiene però conto di quella che è la naturale forza di attrazione esercitata da centri urbani ver- so le aree rurali e nel caso specifico a quella eser- citata da una grande città in crescita dinamica co- me Trieste verso il suo circondario. Questo rap- porto risponde a leggi economiche, come hanno sottolineato  Angelo Vigante e Scipio Slataper,  e non solo a un disegno politico.
Anche alla Chiesa cattolica, come all’autorità governativa, gli ambienti nazionali e liberali italia- ni rimproverano frequentemente di svolgere una funzione filo-slovena, affermazione questa suffra- gata dall’attiva partecipazione di sacerdoti al mo- vimento politico sloveno.
Su un piano politico-amministrativo  l’asprezza della questione nazionale impedisce o rende in- completo l’adeguamento delle istituzioni e dei rapporti linguistici ai princìpi costituzionali e alle idee liberali. Le modifiche alle leggi elettorali lo- cali si mantengono nell’ambito del sistema censi- tario: in tal modo la composizione dei consigli dietali e comunali non rispecchia le reali propor- zioni numeriche esistenti tra i gruppi nazionali (ad esempio nella Dieta provinciale di Gorizia esisteva una maggioranza italiana, anche se gli sloveni co- stituivano i 2/3  della popolazione di quel territo- rio). L’evoluzione delle disposizioni in materia lin- guistica e lo sviluppo delle strutture scolastiche slovene e croate sono frenati dagli organi politici a maggioranza italiana, che impediscono una pie- na parificazione tra le lingue parlate nel Litorale, due nella Contea di Gorizia e a Trieste e tre in Istria.
Nei decenni che precedettero la prima guerra mondiale gli sloveni e gli italiani non strinsero le- gami politici. Costituisce un’eccezione la Dieta go- riziana, nella quale si verificarono inconsuete al- leanze tra i cattolici sloveni e i liberali italiani. Tali legami indussero in quella stessa Dieta provincia- le i liberali sloveni e i cattolici italiani a stringere intese contingenti. I cattolici italiani del Goriziano avevano il proprio punto di forza specie nella campagna friulana, dove agiva il partito popolare friulano, i cui dirigenti furono più tardi tacciati di austriacantismo. Il tentativo di dare vita ad asso- ciazioni cattoliche sloveno-italiane, fallì, suscitò più tardi legami tra i due popoli il movimento cri- stiano-sociale.
Appare dunque evidente come le ragioni del- l’appartenenza nazionale facessero premio  su quelle ideologiche. Questa tendenza è ancora più chiara in Istria, dove il partito popolare italiano è più vicino a posizioni nazionali e dove la vita poli- tica è imperniata su una contrapposizione tra un blocco italiano, che tenta di mantenere in vita la prevalenza italiana nelle istituzioni politiche e nel


sistema scolastico, e un  blocco  croato-sloveno, che cerca invece di modificare l’equilibrio esisten- te. In campo liberale e popolare-cattolico i due gruppi nazionali sono rappresentati in tutto il Li- torale da partiti “nazionali” distinti e contrapposti. Si instaurano invece legami più solidi nell’ambito del movimento  socialista improntato  all’interna- zionalismo benché nel Litorale austriaco esso si fosse dato un’organizzazione articolata in base a criteri nazionali. Fu proprio l'affermazione di que- sto principio a contenere l’assimilazione dei lavo- ratori sloveni, ma vi furono palesi attriti fra i socia- listi delle due nazionalità e divergenze di vedute spesso aspre si manifestarono anche successiva- mente, verso la fine della prima guerra mondiale, nel corso delle discussioni sull’appartenenza sta- tale di Trieste e sulla sua identità nazionale.
Un progetto croato, che contemplava una co- mune resistenza a una asserita germanizzazione della monarchia asburgica, avrebbe potuto  dare vita a un “patto adriatico” tra le nazioni gravitanti sul Litorale, ma esso avrebbe, secondo gli sloveni, attribuito agli italiani aree di influenza così estese da danneggiare gli interessi sloveni.

Reciproca intransigenza,
scarse iniziative per la convivenza

Il mancato sviluppo di un dialogo e di una co- operazione italo-sloveni incide profondamente sull’atmosfera di Trieste e, sia pure in misura mi- nore, anche di Gorizia e dell’Istria alla vigilia del
1915. Italiani e sloveni guardano prevalentemente alla loro identità nazionale e si rivelano scarsa- mente capaci di sviluppare un senso di apparte- nenza comune alla terra nella quale entrambi  i gruppi nazionali sono radicati. Gli sloveni perse- guono l’idea di una Trieste capace di alimentare l’attuazione dei loro programmi economici e sot- tolineano il ruolo centrale per il loro sviluppo di questa città, la cui popolazione slovena sebbene minoritaria era superiore a quella della stessa Lu- biana, in ragione della diversa consistenza demo- grafica delle due città.
La loro espansione demografica li portava a ri- tenere  imminente   il  momento  della  conquista della maggioranza della popolazione a Gorizia e inevitabilmente, sia pure in tempi più lunghi, un risultato analogo a Trieste.
La maggioranza della popolazione  italiana si raccoglie così intorno a una politica di intransigen- te difesa nazionale, tesa a salvaguardare un’immu- tabile fisionomia italiana della città. Se gli sloveni guardano a un retroterra vicino, gli italiani si rivol- gono al più lontano retroterra dei territori interni della monarchia e anche al Regno d’Italia.
In campo italiano Ruggero Timeus sviluppa anche un  nazionalismo  radicale ed  esasperato per quanto minoritario che è fondato sull’idea di una missione civilizzatrice in senso culturale e na-


zionale della città e sull’imperativo  di un’espan- sione economica dell’italianità nellAdriatico.
La forza politica più rappresentativa degli ita- liani di Trieste è però il partito liberale-nazionale, nel quale sopravvive una minoranza legata all’a- spirazione mazziniana mentre la maggioranza ve- de il compito immediato dell’irredentismo nella difesa dell’identità  italiana della città e delle sue istituzioni.
In questo clima teso e infuocato vennero alla luce anche idee di personalità del mondo  della cultura che si innestarono sul solco segnato dagli autori della rivista “La Favilla” nella fervida atmo- sfera del 1848.
Si trattò del gruppo che si raccolse intorno al- la rivista fiorentina “La Voce, resasi promotrice di iniziative rivolte alla convivenza tra i popoli  non- ché alla conoscenza e al riconoscimento della realtà plurietnica di Trieste e del suo circondario. A questa rivista collaborarono alcuni giovani trie- stini, tra i quali Slataper e i fratelli Carlo e Gianni Stuparich. In opposizione all’irredentismo politico essi definiscono la loro posizione con termine di irredentismo  culturale e intendono  sviluppare la cultura italiana nel confronto e nel dialogo con quelle slavo-meridionali e tedesca. Trieste assume quindi per loro la funzione di luogo di incontro tra popoli e civiltà diversi; la loro concezione politica sino al 1914 è quindi molto simile a quella del so- cialismo triestino. Del resto proprio nelle edizioni de “La voce” viene pubblicato il più maturo risul- tato del pensiero socialista, e cioè il volume di Vi- vante sull’irredentismo adriatico. Dal versante slo- veno non si ebbero riscontri incoraggianti si re- gistrarono reazioni a questo libro. Gli sloveni ap- parivano ancora impegnati nella ricerca di una propria identità e incapaci di incamminarsi alla scoperta di altre identità. Rari furono coloro i qua- li riuscirono ad ergersi al di sopra delle barriere nazionalistiche, si vedano ad esempio alcuni giu- dizi sulla questione della fondazione dell’universi- tà a Trieste. Le tensioni erano troppo acute e agli sloveni pareva preferibile e più a portata di mano una soluzione slavo-meridionale della crisi che at- tanagliava la monarchia austriaca alla vigilia dello scoppio del primo conflitto mondiale.

Lirredentismo parte integrante della politica italiana

Con la prima guerra mondiale  il programma dell’irredentismo diventa parte integrante della politica italiana, sia pure nella convinzione che durerà almeno sino alla primavera del 1918 che lAustria-Ungheria, anche se profondamente  ridi- mensionata sotto il profilo territoriale, sarebbe so- pravvissuta al conflitto. Prima ancora dell’entrata in guerra dell’Italia, il diplomatico italiano Carlo Galli nel corso di una missione a Trieste incontrò, per incarico del suo governo, esponenti sloveni.


Per la dirigenza slovena si trattò dei primi contatti ufficiali con uno stato straniero. Già con il patto di Londra però il governo italiano adottò un pro- gramma di espansione, nel quale accanto alle motivazioni nazionali erano presenti ragioni geo- grafiche e strategiche. Il più diffuso lealismo slo- veno nei confronti dello stato austriaco trasse ul- teriore alimento dalle prime voci sugli aspetti im- perialistici del patto di Londra e sulle soluzioni in esso adottate in merito  al confine orientale  del Regno d’Italia nonché dall’atteggiamento delle autorità militari italiane nelle prime zone occupa- te. Un parziale revirement italiano si determinò dopo la sconfitta di Caporetto, dando luogo a una politica di dialogo con le nazionalità soggette dAustria-Ungheria, che culminò nel congresso di Roma dell’aprile 1918 e in un’intesa con il comi- tato jugoslavo. Mentre il persistere del lealismo asburgico sembra ormai contraddittorio  di fronte ai processi di disgregazione interna che scuotono lo stato austro-ungarico, tra gli sloveni si diffondo- no l’idea del diritto all’autodeterminazione e quel- la della solidarietà jugoslava. Nella fase finale del- la guerra e all’inizio del dopoguerra si palesa con tutta evidenza il contrasto tra una tesi slovena e jugoslava, tendente a un confine “etnico, che af- fonda le sue radici nella concezione dell’apparte- nenza della città alla campagna e che sostanzial- mente coincide con il confine italo-austriaco del
1866, e una tesi italiana, mirante a un confine geografico e strategico, determinata dal prevalere nella penisola delle correnti più radicali e dalla necessità politico-psicologica di garantire una frontiera sicura alle città e alla costa istriane, pre- valentemente italiane, e di offrire all’opinione pubblica segni tangibili di ingrandimenti territoria- li, che compensassero gli enormi sacrifici richiesti al paese durante la guerra.


Periodo 1918 -1941

La vittoria italiana e l’oppressione fascista

L’Italia, vittoriosa nella prima guerra mondiale, concluse così il proprio  processo di unificazione nazionale, inglobando nel contempo, oltre agli sloveni residenti nelle città e nei centri minori  a maggioranza italiana, anche distretti interamente sloveni, situati anche al di fuori del vecchio Litora- le austriaco ed estranei allo stesso concetto di Ve- nezia Giulia italiana, come era stato elaborato ne- gli ultimi decenni. Ciò suscitò reazioni opposte fra le diverse componenti nazionali residenti nei ter- ritori dapprima occupati e poi annessi: gli italiani, infatti, accolsero con entusiasmo la nuova situa- zione, mentre per gli sloveni, che si erano impe- gnati per l’unità nazionale e si erano g alla fine della guerra dichiarati a favore del nascente stato jugoslavo,  l’inglobamento   nello   stato  italiano


compor un grave trauma. Il nuovo assetto del confine, il cui tracciato era stato fissato sin dal patto di Londra del 1915 e che seguiva la linea displuviale tra il mar Nero e lAdriatico, strappò dal ceppo nazionale un quarto del popolo sloveno (327.230  unità  secondo il  censimento  austriaco del 1910, 271.305 secondo il censimento italiano del 1921, 290.000 secondo le stime di Carlo Schiffrer), ma la crescita del numero degli sloveni presenti  in  Italia  non  influì  sulla  situazione  di quelli della Slavia veneta (circa 34 mila unità se- condo il censimento del 1921) già presenti nel territorio del Regno, ritenuti ormai assimilati e ai quali non venne pertanto riconosciuto alcun dirit- to nazionale.
L’amministrazione italiana, dapprima  militare e poi civile, mostrò una notevole impreparazione ad affrontare i delicati problemi nazionali e politi- ci dei territori occupati, dove si riscontravano con- sistenti insediamenti in ampie zone maggiorita- ri di popolazioni non italiane che aspiravano al- l’unione con la propria “madrepatria” (nel caso degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia, il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni) e che avevano compiuto per lo più la loro acculturazio- ne politica nell’ambito  dello stato plurinazionale asburgico. Tale impreparazione, unita al retaggio della guerra appena conclusa in cui gli slavi era- no stati considerati come nemici, strumenti privi- legiati dell’oppressione austriaca – provocò da parte delle autorità italiane comportamenti  forte- mente  contraddittori.  Da  un  lato,  nel  periodo
1918-20,  quando  il  confine  italo-jugoslavo  non era ancora definito, le autorità di occupazione, in- fluenzate pure dagli elementi nazionalisti locali, usarono volentieri la mano pesante nei confronti degli sloveni che intendevano manifestare la pro- pria volontà di annessione alla Jugoslavia. Furono così assunti numerosi provvedimenti  restrittivi – sospensione di amministrazioni locali, sciogli- mento di consigli nazionali, limitazioni della liber- tà di associazione, condanne dei tribunali militari, detenzione di militari  ex austriaci, internamento ed espulsione, specie di intellettuali   che pena- lizzarono la ripresa della vita culturale e politica della componente slovena. Al tempo stesso le au- torità di occupazione favorirono le manifestazioni di italianità anche per fornire alle trattative per la definizione del nuovo confine un quadro politica- mente italiano delle regioni. D’altra parte, i gover- ni liberali italiani, pur all’interno di un disegno ge- nerale di  nazionalizzazione dei  territori  annessi, furono  generosi di promesse nei confronti  della minoranza slovena e consentirono il rinnovo del- le sue rappresentanze nazionali, il riavvio dell’i- struzione scolastica in lingua slovena e la ripresa di attività delle organizzazioni indispensabili per lo sviluppo del gruppo nazionale sloveno. Anche il progetto sostenuto da esponenti politici giu-


liani e trentini, e che i governi prefascisti presero in seria considerazione di conservare ai territori annessi forme di autonomia non lontane da quel- le g godute in epoca asburgica, avrebbe favorito un migliore rapporto fra le componenti minorita- rie e lo stato. Inoltre, il Parlamento italiano formu- lò voti in favore di una politica di tutela della mi- noranza slava.
L’irremovibilità delle delegazioni italiana e ju- goslava alla conferenza di Parigi sul problema del- la definizione del nuovo confine ritardò la stabiliz- zazione politica dei territori sottoposti al regime di occupazione, acuendo i contrasti nazionali. Il for- marsi del mito della “vittoria mutilata” e l’impresa dannunziana di Fiume, pur non riguardando diret- tamente l’area abitata da sloveni, accesero ulte- riormente gli animi e costituirono il terreno ideale per l’affermarsi precoce del “fascismo di frontie- ra, che si erse a tutore degli interessi italiani sul confine orientale e coagulò gran parte delle loca- li forze nazionaliste italiane attorno  all’asse del- l’antislavismo combinato con l’antibolscevismo. Il movimento socialista vedeva infatti una larga ade- sione degli sloveni fiduciosi nei suoi princìpi di giustizia sociale e di eguaglianza nazionale che contribuirono  a far prevalere al suo interno le componenti rivoluzionarie: anche da ciò in segui- to derivò la coniazione da parte fascista del neo- logismo “slavocomunista” che alimentò ulterior- mente  l’estremismo  nazionalista. Nel luglio  del
1920, l’incendio del Narodni Dom, la sede delle organizzazioni slovene di Trieste che trasse pre- testo dagli incidenti verificatisi a Spalato e che provocarono vittime  sia italiane  sia jugoslave – non fu così che il primo, clamoroso atto di una lunga sequela di violenze: nella Venezia Giulia co- me altrove in Italia la crisi dello stato liberale offrì infatti campo libero all’aggressività fascista, che si giovò di aperte collusioni con l’apparato dello sta- to, qui ancor più forti  che altrove, come conse- guenza della diffusa ostilità antislava. Le “nuove province” d’Italia nascevano così con pesanti con- traddizioni tra principio di nazionalità, ragion di stato e politica di potenza, che minavano alla ba- se la possibilità della civile convivenza tra gruppi nazionali diversi.

Un quarto  del popolo  sloveno entro i confini  italiani

Il trattato di Rapallo, sottoscritto nel novembre del 1920 tra il Regno d’Italia e quello dei Serbi, Croati e Sloveni, accolse in pieno le esigenze ita- liane e amputò un quarto abbondante dell’area considerata dagli sloveni come proprio “territorio etnico. Tale esito era dovuto alla favorevole posi- zione negoziale dell’Italia che usciva dalla grande Guerra come vincitrice e riconfermata nel suo sta- tus di grande potenza. Il trattato, che non vinco- lò  l’Italia  al rispetto  delle  minoranze  slovena e


croata, garantiva invece la tutela della minoranza italiana in Dalmazia: ciò nonostante si verificò un trasferimento di alcune migliaia di italiani da que- sta regione al Regno d’Italia. Clausole riguardanti la tutela delle minoranze nella Venezia Giulia non vennero incluse nemmeno  nei successivi trattati del 1924 e del 1937 stipulati per avviare da parte jugoslava buoni rapporti con la potente vicina. Nelle intenzioni dei suoi negoziatori, italiani e ju- goslavi, il trattato di Rapallo avrebbe dovuto porre le premesse per una reciproca amicizia e collabo- razione fra i due stati. Così invece non fu e ben presto la politica estera del fascismo si incammi- nò lungo la via dell’egemonia adriatica e del revi- sionismo, assumendo crescenti connotati anti-ju- goslavi; tale orientamento fu sostenuto anche da gruppi capitalistici, non solo triestini, interessati a espandersi nei Balcani e nel bacino danubiano e trovò non pochi consensi nella popolazione italia- na della Venezia Giulia. Presero corpo anche pro- getti di distruzione della compagine jugoslava, so- lo momentaneamente accantonati con gli accordi Ciano-Stojadinovic del 1937, che sembrarono per breve tempo preludere all’ingresso della Jugosla- via nell’orbita italiana. Lo scoppio della guerra mondiale avrebbe trasformato tali progetti in un preciso disegno di aggressione.
Nonostante la difficile situazione esistente nel- la Venezia Giulia, la politica degli esponenti slove- ni e croati tra cui i loro rappresentanti al parla- mento fu improntata al lealismo nei confronti dello stato italiano, anche dopo l’avvento del fa- scismo; tra l’altro, essi non aderirono all’opposi- zione legale quando nel 1924 essa si ritirò sullA- ventino in segno di protesta contro il delitto Mat- teotti. Malgrado ciò, la loro battaglia parlamentare per la tutela dei diritti nazionali degli sloveni e dei croati, condotta in comune con i deputati della minoranza tedesca dellAlto Adige, non diede al- cun risultato, anzi, il regime fascista si impegnò a fondo, anche per via legislativa, nella snazionaliz- zazione di tutte le minoranze nazionali. Così nella Venezia Giulia vennero progressivamente elimina- te tutte le istituzioni nazionali slovene e croate rinnovate dopo la prima guerra mondiale. Le scuole furono tutte italianizzate, gli insegnanti in gran parte pensionati, trasferiti all’interno del re- gno, licenziati o costretti a emigrare, posti limiti all’accesso degli sloveni al pubblico impiego, sop- presse centinaia di associazioni culturali, sportive, giovanili, sociali, professionali, decine di coopera- tive economiche e istituzioni finanziarie, case po- polari, biblioteche ecc. Partiti politici e stampa pe- riodica vennero posti fuori legge, eliminata fu la possibilità di qualsiasi rappresentanza delle mino- ranze nazionali, proibito  l’uso pubblico  della lin- gua. Le minoranze slovena e croata cessarono co- sì di esistere come forza politica e i loro rappre- sentanti fuoriusciti continuarono  ad operare tra-


mite il Congresso delle nazionalità europee, sotto la presidenza di Josip Vilfan, cooperando così al- l’impostazione di una politica generale per la so- luzione delle problematiche minoritarie.

La politica di snazionalizzazione del fascismo

L’impeto snazionalizzatore del fascismo andò però anche oltre la persecuzione politica, nell’in- tento di arrivare alla “bonifica etnica” della Vene- zia Giulia. Così, l’italianizzazione dei toponimi slo- veni o l’uso esclusivo della loro forma italiana, dei cognomi e dei nomi personali si accompagnò alla promozione dell’emigrazione, all’impiego di ele- menti sloveni all’interno del paese e nelle colonie, all’avvio di progetti di colonizzazione agricola in- terna da parte di elementi italiani, ai provvedi- menti economici mirati a semplificare drastica- mente la struttura della società slovena, eliminan- done gli strati superiori in modo da renderla con- forme allo stereotipo dello slavo incolto e campa- gnolo, ritenuto facilmente assimilabile dalla “su- periore” civiltà italiana. A tali disegni di più ampio respiro si accompagnò una politica repressiva as- sai brutale. Vero è che nella medesima epoca la maggior parte degli stati europei mostrava scarso rispetto per i diritti  delle minoranze etniche pre- senti sul loro territorio, quando addirittura non cercava in vari modi di conculcarli, ma ciò non to- glie che la politica di “bonifica etnica” avviata dal fascismo sia risultata particolarmente pesante, an- che perché l’intolleranza nazionale, talora venata di vero e proprio razzismo, si accompagnava alle misure totalitarie del regime.
L’azione snazionalizzatrice fascista si diresse anche contro  la Chiesa cattolica, dal momento che fra gli sloveni dispersi e in esilio quadri diri- genti e intellettuali   fu il clero ad assumere il ruolo di punto di riferimento per la coscienza na- zionale, in continuità con la funzione g svolta in epoca asburgica. I provvedimenti repressivi colpi- rono direttamente  il basso clero, oggetto di ag- gressioni e provvedimenti di polizia, ma forti pres- sioni vennero condotte anche verso la gerarchia ecclesiastica di Trieste e Gorizia, in cui l’alto clero si era nei decenni precedenti guadagnato da par- te dei nazionalisti italiani una solida fama di au- striacantismo e filo-slavismo. Tappe fondamentali dell’addomesticamento  della Chiesa di confine – il cui esito va inserito nell’ambito  dei nuovi rap- porti fra Stato e Chiesa avviati dal fascismo fu- rono la rimozione dell’arcivescovo di Gorizia Fran- cesco Borgia Sedej e del vescovo di Trieste Luigi Fogar.  I  loro  successori applicarono  le  direttive “romanizzatrici” del Vaticano, in conformità  a quanto avveniva anche nelle altre regioni italiane ove esistevano comunità “alloglotte,  come pure nelle realtà europee caratterizzate dalla presenza di fenomeni  simili:  tali direttive infatti  miravano ad offrire il minimo  di occasioni di ingerenza in


materia ecclesiastica ai governi, totalitari e non, e a compattare i fedeli attorno a Roma, in difesa dei princìpi cattolici che la Santa Sede riteneva mi- nacciati dalla civiltà moderna. Questi provvedi- menti comportavano in via di principio l’abolizio- ne dell’uso della lingua slovena nella liturgia  e nella catechesi; essa tuttavia fu mantenuta in for- ma clandestina soprattutto in ambito rurale, a opera dei sacerdoti organizzati nella corrente cri- stiano sociale. Tale situazione provocò gravi ten- sioni tra i fedeli e i sacerdoti slavi da un lato, e i nuovi vescovi dall’altro, e le difficoltà furono acui- te dal diverso modo d’intendere il ruolo del clero, cui gli sloveni attribuivano una funzione prioritaria nella difesa dell’identità  nazionale, che appariva invece agli ordinari diocesani italiani frutto di una deformazione nazionalista. Gli sloveni e i croati si formarono così la convinzione che la gerarchia ec- clesiastica stesse di fatto collaborando con il regi- me a un’opera di italianizzazione che investiva ogni campo della vita sociale.
Gli anni Venti e Trenta furono per i territori an- nessi un periodo di crisi economica, solo tardiva- mente interrotta dalla politica autarchica: alle dif- ficoltà generali segnate dalle economie europee fra le due guerre si sommarono infatti gli effetti negativi della ristrutturazione e frantumazione dell’area danubiano-balcanica, vitale per le fortu- ne economiche delle terre giuliane. I provvedi- menti  compensativi  assunti dallo  stato  italiano non riuscirono a invertire la tendenza negativa del periodo, dal momento che le sue cause profonde
vale a dire la rottura dei legami con i retroterra
sfuggivano alla capacità di intervento sia delle forze locali  sia della  stessa Italia. Ciò dimostrò l’assurdità delle teorie imperialiste, predilette dai nazionalisti italiani, che speravano di fare di Trie- ste e della Venezia Giulia la base per la penetra- zione italiana nell’Europa centro-orientale e bal- canica, ma procurò anche blocco delle prospetti- va di sviluppo e, spesso, riduzione del tenore di vita specie negli strati inferiori  della società, nei quali più numerosi erano gli sloveni. Difficoltà economiche e pesantezza del clima politico favo- rirono fra le due guerre un robusto flusso migra- torio della Venezia Giulia: le fonti non ci consen- tono di quantificare con precisione l’apporto slo- veno a tale fenomeno, che coinvolse anche ele- menti italiani, ma certo esso fu cospicuo, nell’or- dine presumibile delle decine di migliaia di unità. Secondo stime jugoslave emigrarono complessi- vamente 105.000 sloveni e croati; e se nei casi di emigrazione transoceanica è più difficile tracciare un confine fra motivazioni economiche e politi- che, nel caso degli espatri in Jugoslavia, che coin- volsero soprattutto giovani e intellettuali, il colle- gamento diretto con le persecuzioni politiche del fascismo è ben evidente.


Un programma di distruzione dell’identità nazionale slovena e croata

Ciò che infatti  il fascismo cercò di realizzare nella  Venezia Giulia fu  un  vero e proprio  pro- gramma di distruzione integrale dell’identità na- zionale slovena e croata. I risultati ottenuti furono però alquanto modesti, non per mancanza di vo- lontà,  ma  per quella  carenza di  risorse che, in questo come in altri campi rendeva velleitarie le aspirazioni totalitarie del regime. La politica sna- zionalizzatrice riuscì infatti a decimare la popola- zione slovena a Trieste e Gorizia, a disperdere lar- gamente gli intellettuali e i ceti borghesi e a pro- letarizzare la popolazione  rurale, che però, no- nostante tutto, rimase compattamente insediata sulla propria terra. Il risultato più duraturo rag- giunto dalla politica fascista fu però quello di con- solidare, agli occhi degli sloveni, l’equivalenza fra Italia e fascismo e di condurre la maggior parte degli sloveni (vi furono infatti alcune frange che aderirono al fascismo) al rifiuto di quasi tutto ciò che appariva italiano. Analogo atteggiamento di ostilità fu assunto anche dagli sloveni in Jugosla- via anche se, alla metà degli anni Trenta, l’ideolo- gia corporativa del fascismo attirò alcuni ambien- ti politici cattolici. Un certo interesse per la lette- ratura italiana venne manifestato da parte slovena specialmente sul piano della traduzione e della promozione di opere di autori italiani, mentre as- sai limitata  fu l’attenzione degli italiani  verso la letteratura slovena, anche se vi furono alcune ini- ziative, specie nel campo delle traduzioni. Natu- ralmente, a livello di rapporti personali e di vici- nato, come pure in campo culturale e artistico, continuarono  a sussistere ambiti  in cui la convi- venza e la collaborazione erano normali,  e ciò avrebbe mantenuto preziosi germi che l’antifasci- smo e l’aspirazione alla democrazia avrebbero sviluppato, ma in linea generale il solco fra i due gruppi nazionali si approfondì e nei territori giu- liani si svilupparono varie forme di resistenza con- tro l’oppressione fascista. In particolare la gioven- tù slovena di orientamento  nazionalista, raccolta nell’organizzazione Tigr, collegata anche ai servizi jugoslavi e dalla vigilia della guerra anche a quel- li britannici, decise di reagire alla violenza con la violenza sviluppando azioni dimostrative e atti di terrorismo che provocarono repressioni durissi- me. Di fronte alla durezza della repressione fasci- sta, le organizzazioni clandestine slovene assieme a quelle dei fuoriusciti in Jugoslavia decisero, ver- so la metà degli anni Trenta, di abbandonare le ri- vendicazioni di autonomia culturale nell’ambito dello stato italiano per porsi invece come obietti- vo il distacco dall’Italia dei territori considerati et- nicamente sloveni e croati. Come risposta a tale attività di resistenza, il Tribunale speciale per la di- fesa dello stato comminò molte condanne a pene detentive e 14 condanne capitali, 10 delle quali eseguite.


Il PCI e il movimento degli sloveni e dei croati

Da parte sua, il partito comunista d’Italia ma- turò  lentamente  il riconoscimento  come alleato del movimento irredentista sloveno, a lungo con- siderato un fenomeno borghese: la svolta si ebbe solo negli anni Trenta, sotto l’influenza dell’Inter- nazionale, che per dare impulso alla lotta contro nazismo e fascismo prevedeva il collegamento con le forze nazional-rivoluzionarie per la costitu- zione dei fronti popolari. Fin dal 1926 il PCd’I ri- conobbe agli sloveni e ai croati residenti entro i confini  d’Italia il diritto  all’autodeterminazione  e alla separazione dallo stato italiano, fermo restan- do che il criterio dell’autodecisione doveva valere anche per gli italiani. Nel 1934 poi il PCd’I sotto- scrisse assieme ai partiti comunisti della Jugosla- via e dellAustria un’apposita dichiarazione sulla soluzione della questione nazionale slovena, im- pegnandosi altresì in favore dell’unificazione del popolo sloveno entro uno stato proprio.
L’interpretazione da dare a tali risoluzioni sa- rebbe risultata particolarmente controversa du- rante la seconda guerra mondiale, quando il mo- vimento di liberazione sloveno si trovò nella con- dizione di attuare nella prassi il proprio program- ma irredentista. A ogni modo, il patto d’azione sti- pulato nel 1936 tra il PCd’I e il movimento rivolu- zionario nazionale degli sloveni e dei croati avviò la formazione di un ampio fronte antifascista, mentre nella Venezia Giulia debole rimase la con- sistenza dell’antifascismo italiano d’impronta libe- rale e risorgimentale. Va comunque  ricordata la collaborazione che si sviluppò alla fine degli anni Venti fra il movimento  nazionale sloveno clande- stino e le forze antifasciste democratiche italiane in esilio (e specialmente con il movimento Giusti- zia e Libertà), nel cui ambito la parte slovena si impegnò ad alimentare l’attività antifascista in tut- ta l’Italia, mentre da parte italiana agli sloveni e ai croati venne riconosciuto il diritto all’autonomia e, in alcuni casi, alla revisione dei confini. Tale colla- borazione si interruppe quando tra gli sloveni pre- valse la linea secessionistica.


Periodo 1941-1945

Slovenia invasa e smembrata:
la provincia “italiana” di Lubiana

Dopo l’attacco tedesco contro l’URSS la guerra in Europa, specie in quella orientale, divenne to- tale e diretta alla completa eliminazione degli av- versari. Il diritto  internazionale  ed anche le più elementari norme etiche vennero in quegli anni violate dai contendenti con impressionante fre- quenza ed anche le terre a nord dellAdriatico vennero coinvolte in questa spirale di violenza.
La seconda guerra mondiale  scatenata dalle forze dellAsse introdusse nei rapporti sloveno-ita-


liani dimensioni nuove che condizionarono il fu- turo di tali rapporti. Se infatti per un verso l’attac- co contro la Jugoslavia del 1941 e la successiva occupazione del territorio sloveno acuirono al massimo la tensione fra i due popoli, nel suo in- sieme il tempo di guerra vide una serie di svolte drammatiche nelle relazioni fra italiani e sloveni. L’occupazione del 1941  rappresentò così per lo Stato italiano il culmine della sua politica di po- tenza, mentre gli sloveni toccarono con l’occupa- zione e lo smembramento il fondo di un precipi- zio; la fine della guerra rappresentò, per converso, per il popolo sloveno una fase trionfale, mentre la maggior parte della popolazione della Venezia Giulia fu invece assalita nel 1945 dal timore  del naufragio nazionale.
La distruzione del regno jugoslavo si accom- pagnò allo smembramento non solo della com- pagine statale jugoslava, ma anche della Slovenia in quanto realtà unitaria: la divisione del paese tra Italia, Germania ed Ungheria pose gli sloveni di fronte  alla prospettiva  dell’annientamento  della loro esistenza come nazione di un milione e mez- zo di abitanti e ciò li motivò alla resistenza contro gli invasori.
L’aggressione dell’Italia  contro  la  Jugoslavia segnò il culmine della politica ventennale impe- rialista del fascismo, rivolta anche verso i Balcani ed il bacino danubiano. In contrasto con il diritto di guerra che non ammette l’annessione di terri- tori  occupati nel  corso di  azioni belliche  prima della stipula di un trattato di pace, la Provincia di Lubiana fu annessa al Regno d’Italia. Alla popola- zione della Provincia di Lubiana, di circa 350.000 abitanti, era stato garantito uno statuto di autono- mia etnica e culturale; tuttavia le autorità di occu- pazione italiane manifestarono il fermo proposito di integrare quanto prima la regione nel sistema fascista italiano, subordinandone le istituzioni e le organizzazioni a quelle omologhe italiane. L’attra- zione politica, culturale ed economica dell’Italia avrebbe dovuto condurre gradualmente alla fasci- stizzazione ed all’italianizzazione della popolazio- ne locale. Sulle prime l’aggressione fascista aveva previsto di poter soggiogare gli sloveni grazie ad un’asserita superiorità della civiltà italiana, perciò il regime d’occupazione inizialmente instaurato dalle autorità italiane fu piuttosto moderato.

Resistenza Repressione Deportazioni

A fronte di quello nazista, esso appare perciò agli occhi degli sloveni un male minore, ed otten- ne per questo alcune forme di collaborazione, an- che se le stesse forze politiche che vi accondisce- sero non  lo  fecero necessariamente in  vir di orientamenti  filofascisti; gran parte degli sloveni confidava infatti, dopo un periodo di iniziale in- certezza, nella vittoria delle armi alleate e vedeva il futuro del popolo sloveno a fianco della coali-


zione delle forze antifasciste. Fra i gruppi politici sloveni si manifestarono però due diverse vedute di fondo sulla strategia da seguire. La prima, pro- pugnata dal Fronte di Liberazione (OF), sosteneva la necessità di  avviare immediatamente  la resi- stenza contro l’occupatore: vennero perciò forma- te le prime unità partigiane che condussero azio- ni militari contro le forze occupatrici, mentre ai piani italiani di avvicinamento culturale il movi- mento di liberazione rispose con il “silenzio cultu- rale. Aderirono al Fronte di Liberazione apparte- nenti a tutti i ceti della popolazione senza distin- zione di credo politico  ed ideale. L’altra opzione, maturata in seno agli esponenti delle forze libe- ral-conservatrici, suggeriva invece agli sloveni di prepararsi clandestinamente e gradualmente alla liberazione ed alla resa dei conti con l’occupatore alla fine della guerra. Certamente, tanto il Fronte di Liberazione che lo schieramento opposto, fa- cente capo al governo monarchico jugoslavo in esilio a Londra, convergevano sull’obiettivo  della Slovenia unita, comprendente tutti i territori con- siderati sloveni nel quadro di una Jugoslavia fede- rativa.
Al crescente successo delle azioni partigiane ed al radicalizzarsi della contrapposizione fra la popolazione e gli occupatori, Mussolini rispose trasferendo i poteri dalle autorità civili a quelle militari, che adottarono drastiche misure repressi- ve. Il regime d’occupazione fece leva sulla violen- za che si manifestò con ogni genere di proibizio- ni, con le misure di confino, con le deportazioni e l’internamento nei numerosi campi istituiti in Ita- lia (fra i quali vanno ricordati quelli di Arbe, Go- nars e Renicci), con i processi dinanzi alle corti militari, con il sequestro e la distruzione dei beni, con l’incendio di case e villaggi. Migliaia furono i morti, fra caduti in combattimento,  condannati a morte, ostaggi fucilati e civili uccisi. I deportati fu- rono approssimativamente 30 mila, per lo più ci- vili, donne e bambini, e molti morirono  di stenti. Furono concepiti pure disegni di deportazione di massa degli sloveni residenti nella provincia. La violenza raggiunse il suo apice nel corso dell’of- fensiva italiana del 1942, durata quattro mesi, che si era prefissa di ristabilire il controllo italiano su tutta la Provincia di Lubiana.
Improntando la propria politica al motto “divi- de et impera, le autorità italiane sostennero le forze politiche slovene anticomuniste, specie d’i- spirazione cattolica, le quali, paventando la rivolu- zione comunista, avevano in  quel  modo  indivi- duato nel movimento  partigiano il pericolo mag- giore, e si erano rese perciò disponibili alla colla- borazione. Esse avevano così creato delle forma- zioni di autodifesa che i comandi italiani, pur dif- fidandone, organizzarono nella Milizia volontaria anticomunista, impiegandole  con successo nella lotta antipartigiana.


La lotta  partigiana si estende al Litorale

La lotta di liberazione si estese ben presto dal- la Provincia di Lubiana alla popolazione slovena del Litorale che aveva vissuto per un quarto di se- colo entro  il nesso statale italiano. Ciò riaprì la questione dell’appartenenza statale di buona par- te di questo territorio  e rese manifesti non solo l’assoluta inefficacia della politica del regime fa- scista nei confronti degli sloveni, bensì pure il fal- limento generale della politica italiana sul confine orientale. Contro la popolazione slovena erano stati adottati provvedimenti di carattere preventi- vo sin dall’inizio della guerra: l’internamento ed il confino  dei personaggi di punta, l’assegnazione dei coscritti ai battaglioni  speciali, l’evacuazione della popolazione lungo il confine, le condanne alla pena capitale nel quadro del secondo proces- so del Tribunale speciale svoltosi a Trieste. Fra gli sloveni della Venezia Giulia la lotta di liberazione capeggiata dal partito comunista trovò un terreno particolarmente fertile, perché aveva fatte proprie le loro tradizionali istanze nazionali tese all’annes- sione alla Jugoslavia di tutti  i territori  abitati da sloveni, anche di quelli  in cui si riscontrava una maggioranza italiana. Il PCS si era così assicurato l’assoluta egemonia sul movimento  di  massa e grazie alla lotta armata anche l’opportunità  di at- tuare sia la liberazione nazionale che la rivoluzio- ne sociale. Nell’opera di repressione del movi- mento di liberazione le autorità italiane ricorsero ai metodi repressivi g sperimentati nella Provin- cia di Lubiana, ivi compresi gli incendi di villaggi e la fucilazione di civili. A tal fine furono apposita- mente creati l’Ispettorato speciale per la pubblica sicurezza e due nuovi corpi d’armata dell’esercito italiano. Le operazioni militari si estesero pertanto anche sul territorio dello stato italiano.

L’armistizio del settembre  1943 e l’occupazione tedesca

Nei giorni successivi all’8 settembre 1943  le forze armate ed elementi dell’amministrazione ci- vile italiana poterono lasciare i territori sloveni senza contrasto e giovandosi anche dell’aiuto del- la popolazione locale. Le conseguenze dell’armi- stizio comunque rappresentarono una svolta chia- ve nei rapporti sloveno-italiani. La configurazione prevalente da essi assunta sino ad allora, che ve- deva gli italiani-occupatori  ovvero nazione domi- nante e gli sloveni-occupati ovvero popolo op- presso, si fece più complessa. Sotto il profilo psi- cologico ed anche in termini reali la bilancia s’in- clinò a favore degli sloveni. L’adesione della po- polazione  slovena della Venezia Giulia al movi- mento partigiano, le azioni delle formazioni mili- tari e degli organismi di potere  resero testimo- nianza della volontà di tale popolazione che que- sto territorio appartenesse alla Slovenia unita. Ta- le  determinazione  fu  sancita  nell’autunno   del


1943 dai vertici del movimento sloveno e fu suc- cessivamente fatta propria anche a livello jugosla- vo. Anche nella Venezia Giulia gli sloveni interven- nero così in veste di attore politico;  ne tennero conto entro un certo limite  anche le autorità te- desche che, prendendo atto dell’assetto etnico e reale del territorio, cercarono di interporsi stru- mentalmente come mediatrici fra italiani e slavi.
I tedeschi comunque, per mantenere il con- trollo del territorio, fecero ricorso all’esercizio estremo della violenza, per la quale si servirono pure della collaborazione subordinata di forma- zioni militari e di polizia italiane, ma anche slove- ne. Essi inoltre  utilizzarono gli apparati ammini- strativi italiani ancora esistenti nei centri maggiori della regione, nonché strutture di collaborazione istituite appositamente e, nella logica del “divide et impera, sempre strumentalmente accolsero al- cune richieste slovene nel campo dell’istruzione e dell’uso della lingua, concedendo pure ad ele- menti sloveni limitate responsabilità amministrati- ve. La condivisione  degli obiettivi  anticomunisti ed antipartigiani tra le diverse forze collaborazio- niste non poté però superare le reciproche diffi- denze d’ordine nazionale, e ciò por anche a scontri armati. Più ampi furono i movimenti di op- posizione all’occupazione germanica tanto che i nazisti sentirono il bisogno di adibire all’elimina- zione su larga scala degli antifascisti, in primo luo- go sloveni e croati, ma anche italiani, una struttu- ra specifica, la risiera di San Sabba, utilizzata an- che come centro di raccolta per gli ebrei da de- portare nei campi di sterminio. Particolarmente vasta fu la partecipazione al movimento di libera- zione da parte della popolazione slovena, mentre quella italiana fu frenata dal timore  che il movi- mento partigiano venisse egemonizzato dagli slo- veni, le rivendicazioni nazionali dei quali non era- no accettate dalla maggioranza della popolazione italiana. Influì anche negativamente l’eco degli ec- cidi di italiani dell’autunno del 1943 (le cosiddet- te “foibe istriane”) nei territori istriani ove era atti- vo il movimento di liberazione croato, eccidi per- petrati non solo per motivi etnici e sociali, ma an- che per colpire in primo luogo la locale classe di- rigente, e che spinsero gran parte degli italiani della regione a temere per la loro sopravvivenza nazionale e per la loro stessa incolumità.

Collaborazione antifascista Distinzioni e divergenze

Nel corso della seconda guerra mondiale i rapporti sloveno-italiani giunsero al culmine della loro conflittualità; tuttavia vennero contestual- mente sviluppandosi anche forme di collaborazio- ne  su basi antifasciste, in  prosecuzione di  una pluridecennale unità maturata nel movimento operaio. Tale collaborazione assurse al massimo rilievo nei rapporti fra i due partiti comunisti, tra le


formazioni partigiane slovene ed italiane, nei co- mitati di unità operaia e, fin ad un certo momen- to, anche fra l’OF e il CLN. Sotto il profilo genera- le, la collaborazione fra i movimenti di liberazione sloveno ed italiano fu stretta ed ebbe notevoli svi- luppi.
Nonostante le nuove forme di collaborazione fra i due popoli, i due movimenti di liberazione si distinguevano sensibilmente per genesi, struttura- zione, consistenza ed influenza e non superarono le diversità di obiettivi e di tradizioni politiche. Emersero divergenze fra le dirigenze dei due par- titi comunisti come pure fra il CLN giuliano ed i vertici dell’OF, nonostante avessero stipulato alcu- ni importanti accordi. Nella Venezia Giulia la resi- stenza si rivelò un fenomeno plurinazionale piut- tosto che internazionale, dal momento che en- trambi i movimenti di liberazione, pur rifacendosi ai valori dell’internazionalismo, risultarono forte- mente condizionati dell’esigenza di difendere i ri- spettivi interessi nazionali. Il movimento di libera- zione sloveno reputò di importanza centrale l’an- nessione alla Jugoslavia di tutti i territori in cui vi fossero insediamenti  storici sloveni, ma ciò non ebbe esclusivamente implicazioni di ordine nazio- nale, bensì dato il carattere del movimento  – anche implicazioni inerenti agli obiettivi rivoluzio- nari che si era preposto. Il possesso di Trieste in- fatti era considerato di grande importanza, non solo per la sua posizione geo-economica rispetto alla Slovenia, ma anche per la presenza di una forte classe operaia, nonché come base sia per la difesa del mondo  comunista dall’influenza occi- dentale, sia per un’ulteriore  espansione del co- munismo verso ovest, ed in particolare verso l’Ita- lia del nord.
Il PCI, a livello sia locale che nazionale, fino al- l’estate del 1944 non accettò l’idea dell’annessio- ne alla Jugoslavia delle aree mistilingui  ovvero a prevalenza italiana, proponendo di rinviare la de- finizione del problema al dopoguerra. Più tardi in- vece, in una mutata situazione strategica e dopo che il PCS ebbe assunto il controllo sia delle for- mazioni garibaldine che della federazione triesti- na del PCI, i comunisti giuliani aderirono all’impo- stazione dell’OF, mentre in campo nazionale la li- nea del PCI si fece più oscillante: le rivendicazioni jugoslave non vennero mai ufficialmente accolte ma nemmeno respinte, e Togliatti propose una di- stinzione tattica fra annessione di Trieste alla Ju- goslavia di cui non bisogna parlare ed occu- pazione del territorio giuliano da parte jugoslava, che andava invece favorita dai comunisti italiani. Sulla linea del PCI, oltre al sostegno sovietico alle rivendicazioni jugoslave ed al dibattito interno su- gli sbocchi da dare alla lotta di liberazione in Ita- lia, influì anche l’atteggiamento assunto da buona parte del proletariato italiano di Trieste e Monfal- cone, che aveva accolto la soluzione jugoslava in


chiave internazionalista come integrazione entro uno stato socialista alle spalle del quale si ergeva l’Unione  Sovietica. Tale scelta provocò pesanti conseguenze all’interno  della resistenza italiana, portando tra l’altro all’eccidio delle malghe di Por- zûs, perpetrato da una formazione partigiana co- munista nei confronti di partigiani osovani.
Diversa era la posizione del CLN giuliano (dal quale alla fine del 1944 uscirono i comunisti, a differenza di quanto accadde a Gorizia); esso rap- presentava i sentimenti della popolazione italiana di orientamento  antifascista che desiderava il mantenimento  della sovranità italiana sulla regio- ne. Il CLN tendeva inoltre a presentarsi agli anglo- americani come rappresentante della maggioran- za della popolazione italiana, anche al fine di ot- tenere l’appoggio per la definizione dei confini. Il CLN e l’OF esprimevano orientamenti  in materia di confini opposti e incompatibili, perciò quando il problema della futura frontiera venne posto in primo piano, una loro collaborazione strategica divenne impossibile. Sul piano tattico le ultime possibilità di accordo in vista dell’insurrezione fi- nale svanirono di fronte all’impossibilità di rag- giungere un’intesa su chi avrebbe avuto il control- lo politico di Trieste dopo la cacciata dei tedeschi. Fu così che al termine della guerra ciascuna com- ponente della Venezia Giulia attese i propri libera- tori, la Quarta armata jugoslava e il suo nono cor- po operante in Slovenia o l’Ottava armata britan- nica, e scorse in quelli dell’altra l’invasore.

Liberazione,  occupazione  jugoslava, “foibe” e deportazioni

Alla fine di aprile CLN e Unità operaia organiz- zarono a Trieste due insurrezioni parallele e con- correnziali, ma ad ogni modo la cacciata dei tede- schi dalla Venezia Giulia avvenne principalmente per opera delle grandi unità militari jugoslave e in parte di quelle alleate che finirono per sovrappor- re le loro aree operative in maniera non concor- data: il problema della transizione fra guerra e do- poguerra divenne così una questione che travali- cava i rapporti fra italiani e sloveni della Venezia Giulia, come pure le relazioni fra l’Italia e la Ju- goslavia, per diventare un nodo, seppur minore, della politica europea del tempo.
L’estensione del controllo  jugoslavo alle aree g precedentemente liberate dal movimento par- tigiano fino a tutto il territorio della Venezia Giulia fu salutata con grande entusiasmo dalla maggio- ranza degli sloveni e dagli italiani favorevoli alla Jugoslavia. Per gli sloveni si trattò di una duplice liberazione, dagli occupatori tedeschi e dallo Sta- to italiano. Al contrario, i giuliani favorevoli all’Ita- lia considerarono l’occupazione jugoslava come il momento più buio della loro storia, anche perché essa si accompagnò ad un’ondata di violenza che trovò espressione nell’arresto di molte migliaia di


persone, parte delle quali venne in più riprese ri- lasciata in larga maggioranza italiani, ma anche sloveni contrari al progetto politico comunista ju- goslavo –, in centinaia di esecuzioni sommarie immediate le cui vittime vennero in genere get- tate nelle  “foibe”   e nella deportazione  di  un gran numero di militari e civili, parte dei quali pe- rì di stenti o venne liquidata nel corso dei trasferi- menti, nelle carceri e nei campi di prigionia (fra i quali va ricordato quello di Borovnica) creati in di- verse zone della Jugoslavia.
Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra e appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l’impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo Stato italiano, assie- me ad un disegno di epurazione preventiva di op- positori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell’avvento del regime comunista, e dell’annes- sione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugosla- vo. L’impulso primo della repressione par da un movimento rivoluzionario che si stava trasforman- do in regime, convertendo quindi  in violenza di Stato l’animosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri partigiani.

Periodo 1945 -1956

La divisione della Venezia Giulia nella logica  della guerra  fredda

L’area della Venezia Giulia e delle Valli del Na- tisone (Slavia Veneta) che vede l’incontrarsi dei popoli italiano e sloveno, era stata in passato già frammentata, mai però nella misura in cui lo fu nel primo decennio del dopoguerra. Dal maggio
1945 al settembre 1947 vi operarono infatti due amministrazioni militari anglo-americane (con se- de a Trieste e Udine) e il governo militare jugosla- vo. La Venezia Giulia venne divisa in due zone di occupazione: la Zona A amministrata da un go- verno militare alleato (Gma) e la Zona B ammini- strata da un governo militare jugoslavo (Vuja), mentre le Valli del Natisone ricadevano sotto la giurisdizione del Gma con sede a Udine.
Dopo il 1945 la situazione internazionale pro- cedette rapidamente verso la contrapposizione globale fra Est e Ovest e, anche se nei rapporti di- plomatici fra le grandi potenze la nuova logica si affermò solo gradualmente, il clima di scontro fra civiltà informò assai presto gli atteggiamenti poli- tici delle popolazioni viventi al confine tra Italia e Jugoslavia. Inoltre, mentre nel primo dopoguerra i rapporti di forza a livello europeo avevano fatto sì che la controversia di frontiera italo-jugoslava si concentrasse sul margine orientale dei territori in discussione, nel secondo dopoguerra il rovescia-


mento degli equilibri di potenza fra i due Stati spostò il dibattito sui bordi occidentali della re- gione: il nuovo confine premiò così il contributo della Jugoslavia, aggredita dall’Italia, alla vittoria alleata e realizzò buona  parte delle  aspettative che avevano animato la lotta degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia contro il fascismo e per l’emancipazione nazionale. Il tentativo di far coin- cidere limiti etnici e confini di stato si rivelò tutta- via impossibile, non solo per il prevalere delle po- litiche di potenza, ma per le caratteristiche stesse del popolamento  nella regione Giulia e per il di- verso modo d’intendere l’appartenenza nazionale dei residenti nell’area: ancora una volta quindi, com’era g avvenuto dopo il 1918 e com’è del re- sto tipico dell’età dei nazionalismi, il coronamen- to (seppur nel caso degli sloveni non integrale) delle aspirazioni nazionali di un popolo, si risolse di fatto nella penalizzazione di quelle dell'altro.
Dopo l’entrata in vigore del Trattato di Pace – che istituiva quale soluzione di compromesso il Territorio Libero di Trieste (TLT) le relazioni italo- jugoslave vennero assorbite nella logica della guerra fredda. Il momento culminante di tale fase si ebbe nel 1948, quando l’imminenza delle ele- zioni politiche italiane indusse i governi occiden- tali ad emanare la Nota Tripartita del 20 marzo in favore della restituzione all’Italia dell’intero TLT.

Dissidio  URSS-Jugoslavia – Superamento  del TLT

A seguito del dissidio con l’URSS del 1948 la Jugoslavia non aderì più a blocchi politico-militari e le potenze occidentali si mostrarono disposte a ripagarne la neutralità con concessioni economi- che e politiche, pur rimanendo  essa retta da un regime totalitario. Sempre su sollecitazione delle potenze atlantiche, vista l’inconcludenza dei ne- goziati bilaterali sulla sorte del TLT, superata la cri- si  originata  dalla  Nota  Bipartita  dell’8  ottobre
1953, si pervenne il 5 ottobre  1954 alla stipula del Memorandum di Londra.
L’assetto imposto  dal Trattato  di Pace e suc- cessivamente completato dal Memorandum riuscì complessivamente vantaggioso per la Jugoslavia, che ottenne la maggior parte dei territori rivendi- cati ad eccezione del Goriziano, del Monfalconese e della Zona A del mai realizzato Territorio Libero di Trieste, che pur vedevano la presenza di slove- ni. Le Valli del Natisone, la Val Canale e la Val di Resia, sebbene rivendicate dalla Jugoslavia, non costituirono oggetto di trattative.
Diversa fu la percezione di tale esito da parte delle popolazioni interessate. Mentre la maggior parte dell’opinione pubblica italiana salutò con entusiasmo il ritorno all’Italia di Trieste, che era di- venuta il simbolo della lunga contesa diplomatica per  il  nuovo  confine  italo-jugoslavo, gli  italiani della Venezia Giulia vissero la perdita  dell’Istria


come un evento traumatico, che sedimentò nella memoria collettiva. Da parte slovena, la soddisfa- zione per il recupero delle vaste aree rurali del Carso e dell’alto Isonzo, si accompagnò alla delu- sione per il mancato accoglimento delle storiche rivendicazioni sui centri urbani di Gorizia e Trieste, in parte compensato dall’annessione della fascia costiera del Capodistriano che vedeva una con- sistente presenza italiana che fornì alla Slovenia lo sbocco al mare.
A conclusione della vertenza, mentre tutta la popolazione croata della Venezia Giulia si ritrovò nella repubblica di Croazia facente parte della Fe- derazione jugoslava, rimasero comunità  slovene in Italia, nelle province di Trieste, Gorizia ed Udi- ne, e comunità italiane in Jugoslavia, anche se al- l’atto della stipula del Memorandum d’Intesa que- ste ultime erano g state falcidiate dall’esodo dai territori assegnati alla Croazia in forza del Trattato di Pace.
Nelle zone in cui dopo il 1947 venne ripristi- nata l’amministrazione italiana, il ritorno alla nor- malità fu ostacolato dal permanere di atteggia- menti nazionalistici, anche come conseguenza dei rancori  suscitati  dall’occupazione  jugoslava del
1945. Il reinserimento del Goriziano nella compa- gine statuale italiana fu accompagnato da nume- rosi episodi di violenza contro gli sloveni e contro le persone favorevoli alla Jugoslavia. Le autorità italiane mostrarono in genere diffidenza verso gli sloveni e, pur nel rispetto dei loro diritti individua- li, non favorirono lo sviluppo nazionale della co- munità slovena, e in alcuni casi promossero, anzi, tentativi di assimilazione strisciante. La divisione della vecchia provincia colpì gravemente il Gori- ziano, perché l’entroterra montano del bacino dell’Isonzo restò privo del suo sbocco nella pianu- ra, e in particolare la popolazione slovena, che ri- mase separata dai propri  connazionali. Ciò rese necessaria la costruzione da parte slovena di No- va Gorica, che nel nuovo clima instauratosi nei decenni seguenti venne allacciando, anche se con molte difficoltà, rapporti con il centro urbano ri- masto in Italia, la cui ripresa, lenta e faticosa, si delineò appena sul finire degli anni Cinquanta.
Più precaria si rivelò la posizione degli sloveni abitanti nelle Valli del Natisone e del Resiano e nella Val Canale, che non furono mai riconosciuti come minoranza nazionale e rimasero quindi pri- vi dell’insegnamento nella madre lingua e del di- ritto di usarla nei rapporti con le autorità. In tali zone si registrò il rifiorire, a partire dagli ultimi an- ni di guerra, di forme di coscienza nazionale slo- vena, ma la comparsa di orientamenti politici filo- jugoslavi presso popolazioni che avevano sempre manifestato lealismo verso lo Stato italiano, ven- ne prevalentemente giudicata da parte italiana, complice anche il clima della guerra fredda, frutto non di un’evoluzione autonoma ma di agitazione


politica proveniente da oltre confine. I loro asser- tori furono fatti oggetto di intimidazioni  e arresti, e in alcuni casi di atti di violenza, da parte di grup- pi estremisti e formazioni paramilitari. Anche il clero sloveno incontrò difficoltà sia con le autorità civili sia con quelle religiose diocesane nell’affer- mare il proprio ruolo di riferimento  per l’identità degli sloveni della Slavia Veneta a partire dall’e- sercizio dei suoi compiti pastorali in lingua slove- na. Vi è certo stato in tali zone un persistente ri- tardo da parte italiana nell’attuazione di una poli- tica di tutela corrispondente allo spirito della Co- stituzione democratica. Su tale ritardo vennero a pesare l’inasprirsi della situazione internazionale e le corrispondenti contrapposizioni politiche. Da ciò derivarono pure ritardi nell’istituzione della re- gione Friuli-Venezia Giulia, la cui autonomia avrebbe comunque consentito, secondo il dise- gno della Costituente, una maggiore attenzione alle regioni minoritarie.

Il difficile approdo  alla normalità democratica

Nelle Zone A e B della Venezia Giulia e dal
1947 del TLT, entrambi i governi militari operarono come amministrazioni provvisorie, tuttavia differi- vano fra loro per alcuni aspetti sostanziali. Mentre infatti il Gma costituiva soltanto un’autorità di oc- cupazione, la Vuja rappresentava al tempo stesso anche lo Stato che rivendicava a l’area in que- stione, e ciò ne condizionò l’opera. Gli angloame- ricani introdussero nella Zona A ordinamenti ispi- rati ai princìpi liberal-democratici, e, pur mante- nendo sempre il completo controllo militare e po- litico nella Zona A, cercarono sulle prime di coin- volgere nell’amministrazione civile tutte le corren- ti politiche. Poi però, per il diniego della compo- nente filo-jugoslava e anche in vir del peso cre- scente della guerra fredda che fino al 1948 tro- vò nell’area giuliana uno dei suoi luoghi di frizio- ne si servirono soltanto della collaborazione delle forze filoitaliane e anticomuniste. Il Gma adottò comunque  provvedimenti volti ad assicu- rare alla popolazione slovena i suoi diritti nell’uso pubblico della lingua nazionale ed in campo sco- lastico, cercando però nel contempo di ostacolare i rapporti della comunità slovena con la Slovenia. Inoltre, l’attivazione sia pure tardiva degli isti- tuti  di  autogoverno locale, permise agli sloveni con le libere elezioni del 1949 e 1952, di elegge- re i propri rappresentanti dopo più di due decen- ni di esclusione dalla vita pubblica. In quegli anni fece ritorno  a Trieste e a Gorizia una parte degli sloveni fuoriusciti nel periodo fra le due guerre, in particolare gli appartenenti ai ceti intellettuali, i quali assunsero importanti funzioni in campo cul- turale e politico.
Fino al 1954 la priorità attribuita alla questio- ne dell’appartenenza statuale della zona, som- mandosi alle tensioni della guerra fredda, deter-


minò  una polarizzazione della lotta  politica  che rese più difficile l’avvio della nuova vita democra- tica. Lo spartiacque fra il blocco filo-italiano e quello filo-jugoslavo non era né esclusivamente nazionale solo di classe o ideologico, bensì il risultato di un intreccio di tali elementi.  Fino al
1947 all’interno dei due blocchi le distinzioni po- litiche si attenuarono e trovarono ampio spazio le pulsioni  nazionalistiche. Più tardi le articolazioni divennero più marcate e, anche se il peso dello scontro nazionale rimase assai forte, le compo- nenti democratiche filo-italiane, che assunsero la guida politica della zona, badarono in genere a di- stinguere la loro azione da quella delle forze di estrema destra. In modo analogo si manifestaro- no pubblicamente anche le distinzioni ideologi- che, prima offuscate, fra gli sloveni, i quali forma- rono gruppi e partiti ostili alle nuove autorità ju- goslave. Presero corpo anche tendenze indipen- dentiste, che videro una certa convergenza di ele- menti italiani e sloveni attorno all’idea dell’entra- ta in vigore dello statuto definitivo del TLT.
Oltre ai rapporti quotidiani fra la gente che vi- veva sullo stesso territorio e che non furono mai interrotti, si ebbe fino alla risoluzione del Comin- form una stretta collaborazione fra gli sloveni e numerosi italiani della regione, legata soprattutto all’appartenenza di classe e cementata dalla co- mune esperienza della lotta partigiana, che in de- terminati  ambienti  era valsa a infrangere alcuni miti, come quello della naturale avversione fra le due etnie. La scelta in favore dell’annessione alla Jugoslavia, come stato nel quale si veniva edifi- cando il comunismo, compiuta allora dalla mag- gioranza del proletariato locale di lingua italiana, soprattutto nella Zona A, fece che fino alla frat- tura tra la Jugoslavia e il Cominform (1948) a lun- go si mantenesse la solidarietà fra comunisti ita- liani e sloveni, nonostante le crescenti divergenze sul modo d’intendere l’internazionalismo e sulla concezione del partito, oltre che su questioni chiave come quella dell’appartenenza statale del- la Venezia Giulia. Stretta fu pure la collaborazione fra il PCI e il PCJ (PCS),  consolidata dalla lotta co- mune contro l’invasore e il fascismo, nonostante la diversità di posizioni su alcune questioni. Le tensioni esplosero all’atto della risoluzione del Cominform, sostenuta dalla maggioranza dei co- munisti italiani, sicché si ebbe per parecchio tem- po non solo l’interruzione di ogni contatto ma an- che una vera e propria ostilità tra “cominformisti” e “titini. A seguito di ciò in Jugoslavia numerosi comunisti  italiani, sia fra quelli residenti in Istria che fra quelli accorsi in Jugoslavia ad “edificare il socialismo, subirono il carcere, la deportazione e l’esilio. Si creò pure una frattura tra gli sloveni, es- sendosi schierata a favore dell’Unione Sovietica e contro la Jugoslavia anche la maggioranza degli sloveni della Zona A orientati a sinistra. Da allora


per lungo tempo gli sloveni furono divisi in tre gruppi contrapposti e spesso ostili: i democratici, i “cominformisti”  ed i “titini.

L’esodo dall’Istria

Nonostante la Zona B della Venezia Giulia si estendesse su una vasta area compresa fra il con- fine di Rapallo e la linea Morgan, l’area ammini- strata dalle autorità slovene registrava una vasta presenza italiana solo nella fascia costiera, mentre la popolazione dell’entroterra era in larga preva- lenza slovena. Nel 1947 tale area costiera concor- se, assieme al Buiese amministrato dalle autorità croate, alla formazione della Zona B del TLT. Qui la Vuja, che aveva trasferito parte delle proprie com- petenze agli organi civili del potere popolare, cer- cò di consolidare le strutture tipiche di un regime comunista, irrispettoso del diritto  delle persone. Le autorità jugoslave, in contrasto con il mandato a provvedere alla sola amministrazione provviso- ria della zona occupata, senza pregiudizio della sua destinazione statuale, cercarono di forzare l’annessione con una politica di fatti compiuti. Così, oltre a provvedere al riconoscimento dei di- ritti nazionali degli sloveni, fino ad allora negati, tentarono di costringere gli italiani ad aderire alla soluzione jugoslava, facendo anche uso dell’inti- midazione e della violenza.
Nel contempo, le basi economiche del gruppo nazionale italiano, fino ad allora egemone, venne- ro compromesse sia dalla nuova legislazione che dall’interruzione dei rapporti fra le due zone, men- tre le tradizionali gerarchie sociali vennero rivolu- zionate, anche a seguito della progressiva scom- parsa della classe dirigente italiana. Si mirò inoltre ad eliminare i naturali punti di riferimento cultura- le delle comunità italiane: così, a ben poco valse l’attivazione di nuove istituzioni culturali come l’emittente radiofonica in lingua italiana stretta- mente controllate dal regime, di fronte alla pro- gressiva espulsione degli insegnanti e dopo  il
1948 al ridimensionamento del sistema scolasti- co in lingua italiana, nonché all’orientamento complessivo dell’insegnamento verso l’attenuazio- ne dei legami del gruppo nazionale italiano con l’I- talia e verso la denigrazione dell’Italia. Allo stesso modo, la persecuzione religiosa del regime assun- se nei confronti del clero italiano, che costituiva un elemento chiave per la difesa dell’identità  nazio- nale, un’oggettiva valenza snazionalizzatrice.
Se nei comportamenti anti-italiani di parte de- gli attivisti locali, che ribaltavano sull’elemento ita- liano l’animosità per i trascorsi del fascismo istria- no, è palese sin dall’immediato  dopoguerra l’in- tento di liberarsi degli italiani in quanto ritenuti ir- riducibili alle istanze del nuovo potere, allo stato attuale delle conoscenze mancano riscontri certi alle testimonianze anche autorevoli di parte ju- goslava sull’esistenza di un piano preordinato di


espulsione da parte del governo jugoslavo, che pare essersi delineato compiutamente  solo dopo la crisi nei rapporti con il Cominform  del 1948; questo spinse i comunisti italiani, che vivevano nella zona e che pur avevano inizialmente colla- borato anche se con crescenti riserve con le auto- rità jugoslave, a schierarsi nella loro  stragrande maggioranza contro il partito di Tito. Ciò condus- se le autorità popolari  ad abbandonare la linea della “fratellanza italo-slava, che consentiva il mantenimento  nello Stato socialista jugoslavo di una componente italiana politicamente  e social- mente epurata al fine di renderla conformista ri- spetto agli orientamenti  ideologici e alla politica nazionale del regime. Da parte jugoslava, pertan- to, si vide con crescente favore l’abbandono  da parte degli italiani della loro terra d’origine, men- tre il trattamento riservato al gruppo nazionale italiano subì più marcatamente le oscillazioni dei negoziati sulla sorte del TLT. Alla violenza, che si manifestò  nuovamente  al  tempo  delle  elezioni del 1950 e della crisi triestina del 1953, e agli al- lontanamenti forzati, si intrecciarono così provve- dimenti miranti a consolidare le barriere fra Zona A e Zona B. La composizione etnica della Zona B subì inoltre rimaneggiamenti anche a causa del- l’immissione di jugoslavi in città che erano state quasi esclusivamente italiane.
In conseguenza di tutto ciò, dal distretto di Ca- podistria si registrò un flusso costante anche se numericamente  limitato,  di partenze e di fughe, che divenne particolarmente considerevole agli inizi degli anni Cinquanta, fino a coinvolgere l’in- tero gruppo nazionale italiano dopo la stipula del Memorandum  di Londra, quando per gli italiani venne meno  la speranza che la loro  situazione potesse mutare. Infatti, nonostante gli impegni assunti con il Memorandum, l’atteggiamento del- le autorità  nella Zona B non  cambiò, mentre  il medesimo atto concedeva alla popolazione la possibilità di optare per la cittadinanza italiana entro un tempo  limitato.  Complessivamente nel corso del dopoguerra l’esodo dai territori istriani soggetti oggi alla sovranità slovena coinvolse più di 27.000 persone vale a dire la quasi totalità della popolazione italiana ivi residente oltre ad alcune migliaia di sloveni, che vennero ad aggiun- gersi alla grande massa di  esuli, in  larghissima maggioranza italiani (le cui stime più recenti van- no dalle 200 mila alle 300 mila unità), provenien- ti dalle aree dell’Istria e della Dalmazia oggi ap- partenenti  alla Croazia. Gli italiani  rimasti (l’8% della popolazione complessiva) furono in mag- gioranza operai e contadini, specie quelli più an- ziani, cui si aggiunsero alcuni  immigrati  politici del dopoguerra ed alcuni intellettuali di sinistra.
Fra le ragioni dell’esodo vanno tenute soprat- tutto presenti l’oppressione esercitata da un regi-


me la cui natura totalitaria impediva anche la li- bera espressione dell’identità  nazionale, il rigetto dei mutamenti nell’egemonia nazionale e sociale nell’area, nonché la ripulsa nei confronti delle ra- dicali trasformazioni introdotte nell’economia. L’e- sistenza di uno Stato nazionale italiano democra- tico ed attiguo ai confini, più che l’azione propa- gandistica di agenzie locali filo-italiane, esplicatasi anche in assenza di sollecitazioni del governo ita- liano,  costituì un  fattore  oggettivo di  attrazione per popolazioni perseguitate ed impaurite, no- nostante il governo italiano si fosse a più riprese adoperato per fermare, o quantomeno contenere, l’esodo. A ciò si aggiunse il deteriorarsi delle con- dizioni di vita, tipico dei sistemi socialisti, ma le- gato pure all’interruzione coatta dei rapporti con Trieste, che innescarono il timore per gli italiani dell’Istria di rimanere definitivamente dalla parte sbagliata della “cortina di ferro.  In definitiva, le comunità  italiane furono condotte  a riconoscere l’impossibilità di mantenere la loro identità nazio- nale intesa come complesso di modi di vivere e di sentire, ben oltre la sola dimensione politico- ideologica nelle condizioni concretamente of- ferte dallo Stato jugoslavo e la loro decisione ven- ne vissuta come una scelta di libertà.
In una prospettiva più ampia, l’esodo degli ita- liani dall’Istria si configura come aspetto particola- re del processo di formazione degli Stati naziona- li in territori etnicamente compositi, che condusse alla dissoluzione della realtà plurilinguistica e multiculturale  esistente nell’Europa centro-orien- tale e sud-orientale. Il fatto che gli italiani dovet- tero abbandonare uno Stato federale fondato su di un’ideologia internazionalista, mostra come nell’ambito stesso di sistemi comunisti le spinte e distanze nazionali continuassero a condizionare massicciamente le dinamiche politiche.
La stipula del Memorandum di Londra non ri- solse tutti  i problemi  bilaterali, a cominciare da quelli relativi al trattamento delle minoranze, ma segnò nel complesso la fine di uno dei periodi più tesi nei rapporti italo-sloveni e l’inizio di un’epoca nuova, caratterizzata dal graduale avvio della co- operazione di confine sulla base degli accordi di Roma del 1955 e di Udine nel 1962 e dallo svi- luppo progressivo dei rapporti culturali ed econo- mici. Nonostante i loro contrasti, g a partire dal- la stipula del Trattato di Pace, i due paesi, l’Italia e la Jugoslavia, avevano avviato rapporti sempre più stretti, tali da rendere a partire dalla fine degli an- ni Sessanta il loro confine il più aperto fra due Paesi europei a diverso ordinamento sociale. L’ap- porto delle due minoranze fu a tale proposito del massimo rilievo. Tutto ciò concorse, dopo decen- ni di accesi contrasti, ad avviare sia pure fra tem- poranee ricadute, i due popoli  verso una più fe- conda collaborazione.
 

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